Martedì 4 novembre, elezioni di metà mandato negli USA. Un giorno importante per il paese che si trova a dover eleggere i sui deputati (435) e 33 senatori. Un giorno importante, seppure buio, per il presidente Obama perchè getta una luce sugli ultimi due anni del suo governo. Un giorno importante per i cittadini di 38 Stati, tra cui New York, chiamati a scegliere il proprio governatore.
Come negli ultimi quattro anni, anche all’indomani dell’election day, Andrew Cuomo si sveglia governatore dello stato di New York. I sondaggi che lo hanno dato per favorito durante tutta la campagna elettorale si sono rivelati esatti: il 54% dei votanti lo ha preferito allo sfidante repubblicano Robert Astorino che ha ottenuto invece il 40.6% dei consensi. Grazie ad un efficiente politica fiscale, al riconoscimento legale dei matrimoni omosessuali e all’adozione di una norma restrittiva sull’uso delle armi da fuoco, il governatore è riuscito nell’impresa della rielezione, cosa che non accadeva ad un candidato democratico a New York dai tempi di suo padre, Mario Cuomo, rieletto per la terza volta nel 1990.
Analizzando il successo sia alle primarie di ottobre contro la democratica Teachout che nelle elezioni governative, sembra che la vittoria di Cuomo sia da ricondurre a due fattori rimasti costanti durante questi mesi di scontri elettorali: una maggiore notorietà tra gli elettori e una maggiore disponibilità economica rispetto agli sfidanti. Condizioni che si sono alimentate e rafforzate a vicenda. La popolarità e l’influenza di Cuomo, dovute in parte alla sua famiglia e in parte alle cariche pubbliche di governatore e procuratore distrettuale ricoperte, gli hanno permesso di accumulare circa 45 milioni di dollari per la campagna elettorale, spesi per accrescere la propria popolarità. Denaro evidentemente ben impiegato dato che gli spot elettorali hanno convinto più delle accuse di corruzione mosse al governatore a seguito dello scandalo Moreland che ha visto Cuomo coinvolto nella dismissione di una commissione da lui stesso creata pochi mesi prima per investigare su casi di corruzione ad Albany.
Non può forse essere ricondotta alla notorietà del governatore, tuttavia, la sua vittoria di tredici punti nella contea di Westchester dove lo sfidante Astorino è County Executive. È chiaro che qualche errore nell’amministrazione è stato commesso se il candidato repubblicano ha perso proprio là dove ha svolto la propria attività di governo. E allora la speranza espressa a seguito della sconfitta: “Mi auguro che il governatore abbia ascoltato qualcuna delle lamentele dei newyorchesi durante la campagna elettorale”, vale forse anche per lui.
Schiacciante invece il successo di Cuomo a New York City. Il 79.7% di Manhattan lo ha scelto e risultati simili sono stati registrati negli altri distretti della città (con un picco di 86.6% nel Bronx) con l'eslusione di Staten Island dove, pur superando Astorino, Cuomo ha accumulato un distacco di poco più di 11 punti percentuali dal suo rivale. “Questo è solo l’inizio” ha dichiarato durante i festeggiamenti in un hotel della City. Punta forse ad eguagliare la tripletta del suo vecchio?
Molto meno rosee invece le prospettive di governo di Obama che, a seguito dei risultati elettorali, si trova senza il sostegno del Congresso, perdendo l’appoggio anche del Senato. I Repubblicani hanno infatti riconfermato, con 245 seggi, il controllo della House of Representatives già ottenuto nelle elezioni del 2010. Di questi 245 solo 6 sono newyorchesi, gli altri 21 rappresentanti che spettano allo stato appartengono infatti alle fila dei Democratici. Ma New York è un'eccezione perché la disfatta dei democratici al Senato è stata segnata dalla sconfitta in ben sette stati, passati all’opposizione: North Carolina, Colorado, Iowa, West Virginia, Arkansas, Montana e South Dakota. Un risultato che, più che esprimere una preferenza per i programmi politici dei candidati repubblicani, parla chiaro del malcontento nei confronti dell’amministrazione Obama e del presidente stesso, ai minimi storici dell’indice di gradimento. Infatti, osservando i vari scontri elettorali si nota come il solo accomunare il candidato democratico di turno al presidente sia stata una freccia dalla punta avvelenata all’arco del rivale. È successo in North Dakota a Kay Hagan, accusata di essere un “rubber stamp” (un clone o, traducendo alla lettera, un timbro) di Obama, e in Colorado al democratico Mark Pryor avvicinato al presidente per le sue idee sulla lotta al terrorismo.
Questa al momento la situazione al Senato: su un totale di 100 seggi, 52 sono andati ai repubblicani, 45 ai democratici, 3 a candidati indipendenti. Considerando anche una maggioranza repubblicana alla Camera, così ampia (34 seggi di vantaggio) da non ricordarsi dai tempi di Truman, li prossimo biennio dell'amministrazione Obama si preannuncia difficile. Non resta che aspettare e vedere se ha ragione Mitch McConnell, capo della maggioranza al Senato: “Non mi aspetto che il presidente si svegli domani mattina e veda il mondo in modo diverso da ieri. E lui sa che neanche io lo farò. Ma noi abbiamo l’obbligo di lavorare insieme su questioni che possano essere oggetto di accordo”.