L’indagine divulgata a carico di Tiziano Renzi, ormai noto padre del Presidente del Consiglio, non sembra destare grandi preoccupazioni. In nessuna delle persone coinvolte. Non nell’indagato, che ha espresso il suo “rispetto non formale per la magistratura” (prudente autodafè contemporaneo); non nell’augusto figlio, che tace o quasi; e nemmeno negli inquirenti, che sono ancora in fase di studio: hanno infatti chiesto una proroga del termine d’indagine. Ma così, con calma.
Si è però saputo che lo studio, calmo ma, naturalmente, obbligatorio, riguarda un’ipotesi di bancarotta fraudolenta, che è un reato molto grave. Con le circostanze aggravanti si può arrivare ad una pena teorica di 22 anni e mezzo di reclusione. Tuttavia si procede senza affanni, senza sequestri, senza perquisizioni, o peggio. Quattro anni fa l’azienda, comunque, era stata ceduta dal Sig. Renzi; dopo tre anni dalla cessione, ne era stato dichiarato il fallimento. Quindi l’indagine. Azienda attiva nella distribuzione dei giornali. Un’aziendina. Ma quando si tratta di giustizia, di principi, la nostra magistratura, istituzionalmente superiore, spiritualmente disinteressata, non butta via niente.
E’ un’indagine ad intensità variabile. C’è e non c’è. Può mordere e carezzare, carezzare e poi mordere. Può impennarsi, può giacere. Può librarsi nell’incertezza o stagliarsi nella verità. Può lanciare il sasso e poi nascondere la mano. Può vivere o morire. Può fare quello che vuole. Se serve, verrà archiviata. Verrà accertato che, in effetti, gli atti di “disposizione patrimoniale” all’origine dell’insolvenza (le parole del diritto possiedono ieratica solennità e asciuttezza allusiva: cosicchè, alla sola pronuncia, sorga immediato impulso alla genuflessione) non sono riconducibili alla gestione Renzi (padre); o, se sì, che non sono stati comunque “messi in essere” con animo fraudolento (dipende dalla misura di sospetto e, conseguentemente, di credito che si vorrà lasciare sul tappeto). Oppure, se serve, verrà, più o meno solennemente, più o meno clamorosamente, certificato che la “Legge è uguale per tutti”, che bisogna fugare anche l’ombra dell’ombra del dubbio, che, dunque, è necessario un processo, perchè “si faccia chiarezza, anche nell’interesse dell’indagato” (a quel punto imputato), perché come la moglie di Cesare, perché, perchè, perché… (le miserie paragesuitiche sono sempre comprese nello spettacolo inquisitorio, che tanto piace alle gente che piace).
Ma qual è il servizio? Sì, certo, nell’immediato Corte Costituzionale e Consiglio Superiore della Magistratura, lo abbiamo già rilevato, la settimana scorsa. E tanto per non lasciare nulla al caso, Il Fatto Quotidiano ha anticipato che la Procura di Isernia ha sottoposto ad indagine il candidato di Forza Italia alla Consulta, Sen. Bruno, per una consulenza (sospetta, manco a dirlo) del 2009.
Ma questo è de ja vu. E anche il tono complessivo di queste sbruffonerie non è nuovo: il tono sussiegoso da potere supplente, da tutore delle buone maniere democratiche, sempre in pericolo di essere compromesse da giovinastri o più incalliti maleducati dell’etica e del buon costume istituzionale, il tono del “meno male che ci siamo noi, altrimenti…” è ormai consunto. Il tono della lotta continua con altri mezzi.
No. Quello che c’è di nuovo è il superamento dell’impudicizia; è il rivendicare la melliflua inafferabilità del potere di calunnia; l’esibire il trastullo delle coincidenze temporali come estremo attributo di potenza, per cui non fingere nemmeno più sofferto imbarazzo, intimo rovello (ricordiamo tutti la pantomima dell’avviso napoletano via Corriere a Berlusconi: era nel portatile di Davigo, perché era roba delicata; ci siamo interrogati, ore di riunione; ma poi abbiamo deciso…), ed anzi, dare per scontato che il potere di indagare è personalistico, infeudato, perciò lo si usa secondo gli equilibri interni di vassalli, valvassini e valvassori, e con l’intensità che serve: dall’avvertimento (candidature alla presidenza della Regione Emilia Romagna, e, ora, il Padre, come un tempo fu il Fratello), alla tortura (processi che durano lo spazio di una vita), all’esecuzione. Carriere, stipendi, ferie, responsabilità civile, intercettazione, divulgazione-gogna? Non se ne deve nemmeno parlare.
Il Presidente del Consiglio è arrivato dove era fin troppo facilmente prevedibile che arrivasse. Al dunque. Dov’è arrivato (e, fin qui, si è arrestato: in ogni senso) qualsiasi tentativo di espugnare il sinistro maniero della conservazione, i cultori di uno Stato che si vuole oligarchico, ma in nome “dell’interesse generale”: alla maniera della Camusso che straparla di lavoro mentre cavalca la sua satrapia di pensionati. Alla maniera di Giancarlo Caselli, a cui non bastano 540 mila euro di pensione annua e, di fronte al “tetto” dei 300 mila, ricorre alla Corte Costituzionale.
Ci sono alcune generazioni di italiani a cui questo scempio metodicamente violento, intimidatorio e velenoso, questo mascherarsi da Fra Cristoforo essendo Don Rodrigo, questo fare il deserto e chiamarlo pace, questo napalm spacciato per fertilizzante lamentandosi poi se cresce solo gramigna (ma non è vero), è costato il fiore degli anni, delle speranze e della dignità.
Renzi deve liquidare tutto questo. Liquidare.