Supponiamo che l’ONU, tramite il suo specifico Comitato ginevrino, non abbia deliberatamente voluto trasmettere l’equazione Chiesa cattolica, uguale pedofilia. Ma che sia stato solo l’effetto non voluto di una comunicazione frettolosa e ingenua. Tuttavia, l’effetto c’è stato. Per sgombrare il campo da ogni perniciosa tentazione, diciamo subito che l’equazione non esiste. Nessuno si sognerebbe di affermare, per esempio, che l’ONU è un organizzazione dedita a favorire ed incoraggiare la pratica del genocidio, nonostante, com’è noto, il suo comportamento in Rwanda questo fece. Ci furono circa un milione di morti a colpi di machete, a New York giunsero per tempo richieste formali d’intervento, ma sappiamo com’è andata. Nessuna interposizione, ma solo qualche elicottero e qualche jeep per recuperare i pochi addetti non locali. Si distinsero francesi, belgi e inglesi.
Nondimeno, non potremmo ragionevolmente qualificare l’ONU nei termini di un’organizzazione criminale e “appendere” i suoi quasi settant’anni di storia ad un episodio, per quanto significativo. Giusto. Allora si può ritenere che il Comitato non abbia valutato in termini analoghi la piaga della pedofilia curiale. E che nei suoi oltre duemila anni di storia non abbia rinvenuto ragioni sufficienti per circoscrivere quella valutazione. Niente episodio, cioè fatto storicamente singolare, rispetto alla pluralità dei “fatti positivi” del suo corso bimillennario. Si potrebbe replicare che gli eventuali meriti verso l’infanzia acquisiti dalla Chiesa cattolica non esimono da una valutazione del caso considerato. E così saremmo tornati al punto di partenza. Giacchè non ci stiamo chiedendo perché il Comitato si è occupato di questa piaga, ma perchè abbia avvalorato un’equivalenza assoluta fra Chiesa cattolica e pedofilia.
Solo che l’ipotesi dell’ingenuità non convince. Giacchè il Comitato, prima ancora che scrivere sulla pedofilia dei sacerdoti, si è premurato di censurare il magistero della Chiesa su omosessualità, c.d. cultura di genere, famiglia, matrimonio, aborto. Perciò il Comitato voleva fare quello che ha fatto. Portare un attacco clamoroso alla Chiesa cattolica, proprio a partire dal cuore della sua esistenza: la testimonianza, l’apostolato, l’insegnamento, la predicazione, l’educazione. Perché?
Non pretendo di saperlo. Posso solo tentare un ragionamento ad alta voce, insieme a voi.
La Chiesa cattolica non è mai stata come le altre. La religiosità cattolica non si è mai posta come meramente interiore. Ha sempre preteso di occupare lo “spazio pubblico”. Ha sempre coltivato una forza ed una ragione “normativa”. Si occupa dell’uomo in nome di un’istanza trascendente. Ma non di un’istanza trascendente qualsiasi: è una trascendenza mediata da un legame personalistico. Dio si fa uomo, cioè persona, fonda la sua Chiesa, sposa (persona) di Cristo, che si rende persona fino all’estremo, e vi pone a capo un suo vicario, Pietro, una persona.
L’interiorità pura e semplice per un cattolico non esiste. Il cattolico vuole dare forma al mondo. Per questo si immerge nel mondo. Ne sperimenta i tratti, i caratteri. Cresce e si fa imperiale e, per tutto il Medio Evo, il tempo del suo apogeo, si struttura come complexio oppositorum, l’abbraccio degli opposti. Non la loro sintesi, ma la loro coesistenza. Come ogni grandezza imperiale, anche la Chiesa cattolica, unanimemente ritenuta erede dell’Impero Romano, non si preoccupa di “superare”, ma si limitata a “comprendere”, a prendere insieme.
Con la Riforma, questa capacità, che significa attitudine a contenere, si specifica e si precisa. Lutero muove da un concetto disperato dell’Uomo: corrotto, irredimibile, giustificabile solo per fede, mai per opere, poiché l’uomo può solo male. Introduce l’antitesi, quale criterio guida, al posto della complexio. Antitesi fra natura e grazia, fra natura e spirito, fra natura e intelletto, fra natura e arte, fra natura e macchina. La risposta tridentina è più aperta: la natura umana non è irrimediabilmente corrotta, piuttosto è offuscata, indebolita. Non c’è rinuncia, c’è speranza, non solo attesa, ma anche slancio, non ci ripiega nello spirito, si milita nel mondo. E del mondo si prende tutto: comprese e, innanzitutto, le sue piaghe.
La derivazione del liberalismo, e del liberismo, cioè del liberalismo economico, dal protestantesimo è tema complesso e controverso. Certo è innegabile che rivoluzione industriale, “riduzione” della religione a “libertà” individuale, arretramento della Chiesa “politica”, cioè immersa nella Pòlis che pretende di guidare, descrivono, per lo meno, “coincidenze significative”.
Tutto intero il magistero della Chiesa si fonda sulla trascendenza personale. Tutto intero il suo magistero nega che l’ultima parola si debba pronunciare “qui”. Il “qui”, finite le Guerre di religione, dopo le due Rivoluzioni industriali, le Rivoluzioni francese e americana, quelle europee del ’48, le due guerre mondiali e Hiroshima e la Guerra Fredda e la sua fine, il “qui” è la Civiltà della Tecnica, le sue potentissime spinte ad un incessante autoconsumo, di “cose” (materiali e immateriali), quale unica forma di certezza e di verità. Il “qui” non tollera concorrenti sul terreno di ciò che si deve fare. Il ricambio, la novità, l’inarrestabile “decostruzione” di ogni impianto tradizionale, normativo, sociale, sapienziale, per il Sistema costituiscono una necessità vitale.
Occorre un uomo nuovo. Che non risenta di limiti. Che sia irrefrenabile.
Nella seconda Lettera ai Tessalonicesi si fa riferimento a qualcosa o a qualcuno “che frena”. Tò Katechon; O’ Katechon. Forse è questo il punto.