Oggi gli interventi militari devono essere "chirurgici". L'aggettivo evoca precisione da un lato, e capacità di sanare, di guarire, dall'altro. Nessuno usa più la parola "guerra". Nessuno menziona più quello che è in fondo l'obiettivo di ogni guerra, piegare il nemico, se necessario annientarlo.
La prima volta che ho sentito parlare di "intervento militare chirurgico" è stato in occasione delle guerre balcaniche. Ad usare quell'espressione Alexander Langer, il politico altoatesino, fondatore della Neue Linke/Nuova Sinistra e poi dei Verdi/Grünen, già leader di Lotta Continua, dal 1989 europarlamentare, morto suicida a Firenze nel 1995. Langer era un autentico pacifista, serio, motivato, colto. Un filosofo prestato alla politica, a suo agio in territori che spaziavano dall'ambientalismo ai problemi della convivenza fra culture diverse, quelli con cui aveva a che fare nella sua terra di origine. Ma Langer ebbe anche il coraggio di chiedere, a Strasburgo, un intervento militare "chirurgico", appunto, per liberare Sarajevo dall'assedio. In quella circostanza, l'aggettivo aveva un senso, un perché. Sottolineava il desiderio di non versare sangue inutilmente pur assumendosi l'obbligo morale di intervenire a fianco dei più deboli, gli abitanti della città bosniaca assediata dai serbi. La storia, alla fine, gli diede ragione. E dimostrò che si sarebbe dovuto fare la stessa cosa anche a Srebrenica, anzi, che lì sarebbe stato anche più facile farlo, perché il diritto internazionale era tutto dalla parte dell'Onu, essendo Srebrenica una enclave difesa dai Caschi blu, creata apposta per dare rifugio ai musulmani della regione.
Da allora molte cose sono successe. Si sono combattute guerre che si sono rivelate tutt'altro che chirurgiche, in Iraq, in Afghanistan, in Libia. Ci sono stati anche interventi militari che più si avvicinavano a quello che Langer aveva in mente quando sollecitava un'azione risolutiva del mondo per liberare Sarajevo dall'assedio: recentemente in Mali, più lontano nel tempo in Kosovo. Non che non vi siano state vittime innocenti, anche in questi casi: di fatto, non esiste un intervento armato abbastanza chirurgico. Ma quantomeno, in questi casi, si sono ottenuti i risultati desiderati in tempi relativamente brevi ed evitando una degenerazione dei conflitti. Ci sono stati poi dei casi in cui il mondo non ha proprio fatto nulla, a parte inviare un po' di Caschi Blu privi di poteri reali: il caso più emblematico è quello della guerra del Congo, la "prima guerra mondiale africana", come era stata definita dall'ex-segretario di stato statunitense Madeleine Albright.
Se per una certa retorica pacifista tutti gli interventi armati, o se preferite tutte le guerre, sono uguali (e dal punto di vista delle vittime innocenti è certamente così), in realtà, no, non tutte le guerre o non tutti gli interventi armati sono uguali. Alcuni sono giustificati dalla necessità di evitare crudeltà più grandi (quanto pesa nella coscienza del mondo non avere fatto nulla di nulla nel 1994, in Ruanda?). Alcuni sono magari giustificati, dalla coscienza e dal diritto, ma portano a tragedie ancora più spaventose. Alcuni non sono affatto giustificati e bisogna fabbricare prove false per far sì che assumano una parvenza di legalità.
Il punto oggi è: quanto è giustificato un intervento militare in Siria? E può esserci, in quel contesto, un intervento "chirurgico", o è più probabile che esso si tramuti in una guerra di lungo periodo, di intensità nemmeno tanto bassa (per usare un'espressione in voga all'epoca della Guerra fredda, "conflitto a bassa intensità")?
Sul piano delle giustificazioni, nessuno discute sul fatto che Assad sia un dittatore. Ma non esiste alcun genere di mandato, nei confronti di chicchessia, per abbattere tutte le dittature e sostituirle con delle specchiate democrazie, altrimenti l'Onu dovrebbe fare la guerra anche alla Cina, che opprime da decenni un piccolo popolo pacifico, quello tibetano, e ha soffocato nel sangue la richiesta di libertà e democrazia emersa in piazza Tienanmen. L'intervento in Siria, dunque, come ha chiarito Obama in questi giorni, si configura piuttosto come "punitivo", avendo il dittatore violato una norma del diritto internazionale, che vieta l'uso delle armi chimiche (norma in verità un po' datata: le vittime causate dai droni o dalle bombe al fosforo bianco sono meno vittime di quelle sterminate dai gas?).
Ma è sulla chirurgicità che i dubbi si fanno davvero consistenti. La guerra civile siriana si inquadra in un conflitto di più vasta portata fra sciiti e sunniti, chiama in causa i principali contendenti della regione, Iran e Israele, e si inserisce nel braccio di ferro planetario fra le superpotenze, Usa (con gli alleati europei), Russia, Cina. Identificare chiaramente dove stia la ragione e dove stia il torto – fermo restando il giudizio della storia sulla dittatura degli Assad, padre prima, figlio adesso – è più difficile che non a Srebrenica o a Sarajevo; in verità, e difficile finanche identificare con certezza chi sia realmente l'autore dell'attacco criminale con le armi chimiche. Restano anche aperti tutti gli scenari su un eventuale post-Assad: chi governerà in Siria, quando la dittatura sarà caduta? Quanto peso hanno ad esempio gli spezzoni qaedisti nel contesto delle forze "ribelli"?
In uno scenario del genere, forse il mondo avrebbe dovuto preoccuparsi piuttosto di togliere benzina al conflitto, anziché alimentarlo con la vendita di armi. Sarebbe stata, quella sì, una decisione chirurgica.