Ci sono casi che appaiono particolarmente insopportabili: per tante ragioni. Quelli relativi ai dissidenti cinesi, per esempio. Condannati a pene durissime, incarcerati anche se le loro condizioni fisiche e psichiche sono precarie, vittime di vere e proprie mostruosità giuridiche. Il paradosso non è che queste sono vicende insopportabili per la loro gravità, e spingono a indignazione e protesta. Sono al contrario insopportabili nel senso che si preferisce non saperli, non conoscerli; ignorarli. Lasciar fare.
Ancora qualche giorno, e calerà il sipario sui XXIV Giochi olimpici invernali a Pechino. Sempre a Beijing, nel mese di marzo, si terranno i XIII Giochi paralimpici invernali. Oltre alla capitale, le gare si svolgono anche nella contea di Yanqing, e nella città-prefettura di Zhangjiakou.
Alla vigilia dei Giochi, Amnesty International ha diffuso un appello che non sembra essere stato raccolto: “I Giochi olimpici di Pechino”, si è appellato Alkan Akad, ricercatore sulla Cina di Amnesty International, “promettono di essere un evento sportivo memorabile, ma il mondo non può ignorare ciò che sta accadendo in ogni parte della Cina: avvocati e attivisti imprigionati solo a causa del loro lavoro, donne sopravvissute alla violenza sessuale punite per le loro denunce, migliaia di condanne a morte eseguite ogni anno, gruppi etnici di religione musulmana sottoposti sistematicamente a internamenti di massa, torture e persecuzioni”.

L’evento sportivo viene usato per distogliere l’attenzione dalla drammatica situazione dei diritti umani in Cina. Peccato non sia stata, invece, un’occasione, un’opportunità per chiederne conto a Pechino. In Cina, il diritto alla libertà di espressione è sistematicamente violato.
Alla vigilia dei Giochi olimpici, Amnesty International ha lanciato la campagna “Liberiamo i cinque”, per richiamare l’attenzione su cinque dei tanti attivisti detenuti in Cina per aver esercitato il loro diritto alla libertà di espressione: la citizen journalist Zhang Zhan; il docente universitario Ilham Tohti; la sindacalista Li Qiaochu; l’avvocato per i diritti umani Gao Zhisheng, il blogger tibetano Rinchen Tsultrim.
La loro ingiusta prigionia è emblematica dell’intolleranza del governo cinese contro tutte le forme di dissenso pacifico e del desiderio di punirle nel modo più draconiano possibile.
Il caso di Zhang Zhan è paradigmatico: nasce a Xianyang Shaanxi. Ha sette anni quando scoppiano le proteste di piazza Tian’anmen. Dopo una laurea in economia e finanza presso la South West University of Economics and Finance (Chengdu), studia legge laureandosi a Shanghai. Cattolica praticante, inizia ad esercitare la professione di avvocato ma viene licenziata a causa della sua partecipazione ad attività di tutela dei diritti.

La sua “colpa”: aver reso note informazioni sul Covid-19 quando il virus è apparso per la prima volta a Wuhan. Nel febbraio 2020 si reca a Wuhan come giornalista civile per fornire informazioni dal campo su ciò che accade. Attraverso i social media riferisce di come i funzionari del governo incarcerino i giornalisti indipendenti e minaccino le famiglie dei pazienti con Covid-19. Nel maggio 2020 “scompare”. Le autorità cinesi la prelevano, per un certo periodo è detenuta a Shanghai. Il giudice la condanna a quattro anni di reclusione per aver diffuso informazioni false e aver provocato disordini. Le autorità si rifiutano di farle vedere la sua famiglia.
Nel giugno 2020, inizia uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione. A dicembre, il corpo di Zhang Zhan è così debole che è costretta ad assistere al proprio processo su una sedia a rotelle. Ciò nonostante, continua lo sciopero della fame parziale per evitare una punizione e l’alimentazione forzata.
Zhang Zhan è la prima giornalista ad essere stata condannata per aver informato sulla pandemia in Cina, ma almeno altri 47 giornalisti sarebbero detenuti in Cina per i loro articoli a riguardo del coronavirus.
I citizen journalists portano avanti il giornalismo “partecipativo” (o civile) e sono stati l’unica fonte di informazioni di prima mano non censurata sull’epidemia di Covid-19 in Cina. Poiché sono indipendenti dai media che sono invece controllati dal regime, subiscono continue minacce e intimidazioni.