Quando Filippo Ferretti inizia a parlare, nella sua voce si nota da subito una lieve cadenza spagnola. È nato in Italia e attualmente vive a New York, ma lavora come anchorman per Univisión, la rete in lingua spagnola con il più grande bacino d’utenza degli Stati Uniti.
Ha vinto un Emmy Award, assegnato dall’Academy of Television Arts & Sciences, per un’inchiesta durata due anni con la quale è riuscito a smascherare una truffa portata avanti da un pastore religioso ai danni di migliaia di immigrati bisognosi di un permesso di soggiorno.
Proprio da qui, da questa inchiesta che gli è valsa un premio così prestigioso, siamo partiti per conoscerlo meglio.
Filippo, innanzitutto complimenti per il premio. Di cosa ti sei occupato durante la tua inchiesta?
“Tutto è cominciato a Tampa, in Florida, con il messaggio di un uomo che mi ha detto di essere stato truffato del suo pastore. Così abbiamo fatto il primo servizio in televisione, dieci minuti dopo il quale ho iniziato a ricevere altri messaggi di persone che avevano avuto la stessa esperienza. Lì ho capito che c’era qualcosa di più. La figura di cui stiamo parlando era un religioso, diceva di essere avvocato e vendeva bellissimi sogni. Aveva trovato un trucco per far avere ai suoi assistiti il permesso di soggiorno per un breve lasso di tempo, in cambio di un pagamento. Poi, però, finito il periodo, la polizia si rendeva conto che queste persone avessero un visto non valido e le arrestava. Parliamo di quasi un migliaio di vittime, per un totale di circa 6 milioni di dollari. L’anno scorso è stato condannato a 22 anni di carcere. L’inchiesta, quando è emersa, è rimbalzata un po’ su tutti i giornali, finendo addirittura sul New York Times“.
Come hai reagito quando hai saputo di aver vinto?
“Da una parte grande soddisfazione personale, dall’altra felicità per aver ottenuto una rivincita per queste persone che hanno creduto in me e che ora, in quanto vittima di un crimine, sono riuscite ad ottenere il visto. La gioia più grande è stata quella di essere riuscito ad aiutare uomini e donne disperate, che nella vita avevano perso tutto”.
Ma da dove nasce questa passione per il giornalismo?
“Nasce da lontano, da molto piccolo. Quando avevo 7 anni prendevo il giornale che compravano i miei genitori e cominciavo a leggerlo. Così ho iniziato il prima possibile a scrivere, collaborando per i primi quotidiani. Poi, dalla carta stampata, ho avuto le mie prime esperienze in televisione, ma pagate malissimo. Mi sono reso conto che la sola passione non mi dava la possibilità di vivere, quindi ho iniziato a fare qualsiasi tipo di lavoro. Ho portato le pizze, lavorato in una copisteria e come portiere d’albergo. Però non volevo essere un precario e sono sempre stato attratto dall’America. Così, quando un mio collega è andato in Florida e ha fondato un giornale per italoamericani, ho deciso di seguirlo. Sono arrivato là nel 2013 senza soldi e senza alcuna prospettiva, ma poi non sono più tornato indietro. Avevo 34 anni e in Italia ero fuori dal mercato del lavoro, invece qua ho iniziato subito a dare il mio contribuito. Dopo questa esperienza sono arrivato a Univisión. Lì mi hanno aperto le porte per il classico sogno americano”.
https://youtu.be/oDTMAtHsapY
E ora sei qui a New York
“Sì, sono a New York. Qui lavoro per il telegiornale, che è uno dei più seguiti in città. Presento e faccio l’inviato ed è veramente una soddisfazione grandissima. Pensando a come sono arrivato e a quanta strada ho fatto in così poco tempo, mi rendo conto che in Italia una carriera del genere non l’avrei potuta avere. Se fossi rimasto lì, probabilmente oggi sarei uno di quelli che prendono il reddito di cittadinanza e non è nel mio stile”.
Allora che consiglio daresti ai giovani italiani che vorrebbero fare i giornalisti, ma in Italia trovano tutte le strade sbarrate dalla crisi dei giornali, dalla burocrazia e dalle raccomandazioni?
“Io sono convinto che a volte nella vita ci voglia coraggio. Bisogna avere il coraggio di scegliere la strada più difficile. Nel Paese in cui sei nato, dove conosci l’ambiente e la lingua, ti senti al sicuro, ma quando ti rendi conto che quello spazio è troppo piccolo per te, devi saper cambiare. Io ho provato a guardare a lungo termine e mi sono detto ‘se non ti aiuta nessuno, aiutati da solo’. Il mio consiglio è non accontentarsi. Se in Italia non c’è lavoro, fuori ci sono milioni che ce la fanno. Quando ti rendi conto che non puoi farcela dove sei, devi cambiare aria. Per me non è stato facile, però ad esempio gli Stati Uniti sono un Paese che ti dà le opportunità che cerchi. Seguire il proprio sogno è importante, ma ancora di più è mettere questo sogno su un foglio e convertito in un progetto. Oggi sono fiero del mio percorso. Quando mi rendo conto che non sono amico di nessuno, non ho avuto raccomandazioni, non ho una tessera di partito e non devo dire niente per far piacere a qualcuno, mi rendo conto che questo Paese ti dà la libertà di crescere. Una cosa che non vedo in Italia”.
E quindi quali sono i tuoi programmi per il futuro?
“Penso per il momento di voler continuare a fare quello che faccio. Raccontare le storie e viverle in prima persona. New York è una città che ha un’energia grandissima e come giornalista la sento ancora di più. Il mio obiettivo è riuscire a fare un giornalismo corretto, che dal mio punto di vista è uno strumento per la comunità. Magari impiego 10 ore della giornata, ma alla fine dò qualcosa alle persone che mi ascoltano e mi guardano. Questa è la soddisfazione più grande”.
Hai intenzione di rimanere a New York o vorresti provare a tornare in Italia?
“Ormai da 10 anni vivo in America, sono cittadino americano, quindi credo che il mio futuro sia qui. Mi piacerebbe tornare in Italia, potrei pensarci. Negli Stati Uniti la scuola del giornalismo è grandiosa, mi ha arricchito e mi piacerebbe, anche per una sorta di riscatto personale, poter far qualcosa per gli italiani che sono rimasti lì e che guardano agli Stati Uniti. Questo sì mi piacerebbe tantissimo”.