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Festa dell’indipendenza USA a 50 anni da i Pentagon Papers: i segreti della libertà

Questo 4 di luglio cade nei giorni dell'anniversario di un evento che ci ricorda che... altro che Cina o Russia, meglio essere "prigionieri" degli americani!

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
World Press Freedom Day 2020: US Senate Introduces Bipartisan Resolution

First Amendment to the United States Constitution engraved on the facade of the Newseum in Washington, D.C. (Photo: Wikimedia Commons)

Time: 5 mins read

Il 4 di luglio del 2021, in cui si celebra la dichiarazione dell’Indipendenza americana avvenuta nel 1776, cade negli stessi giorni del cinquantenario dell’inizio di un evento che continua ad essere considerato la vetta più alta mai raggiunta dalla potenza della libertà in America. Stiamo parlando dell’inizio della pubblicazione dei “Pentagon Papers”, che nel 1971 scoperchiò le bugie di stato sulla guerra del Viet Nam. Si tratta dello studio per uso interno ordinato dall’allora presidente Richard Nixon e che sarebbe dovuto rimanere segreto, ma che grazie all’azione eroica di uno dei suoi estensori, l’analista del Pentagono Daniel Ellsberg, fu svelato al pubblico. Quando l’ex analista della Rand Corporation consegnò le pagine del rapporto a Neil Sheehan –  giornalista del New York Times che aveva conosciuto quando era in missione segreta in Viet Nam –  si scoperchiarono vent’anni di segreti su menzogne che le varie amministrazioni USA, da Eisenhower fino a Nixon, avevano collezionato nella loro politica in Indocina per giustificare l’intervento militare. Valanga di bugie svelavano come la guerra fosse stata montata su una montagna di falsità. La pubblicazione di quel rapporto costrinse il duo Nixon-Kissinger ad accelerare il ritiro americano e la fine dei combattimenti.

Proprio negli stessi giorni del cinquantenario, è scomparso a 93 anni, anche l’ex senatore dell’Alaska Mike Gravel, che ebbe un ruolo importantissimo nel far si che il Congresso rivelasse per sempre tutti i documenti. Allora l’amministrazione Nixon cercò di fermarne la pubblicazione, prima bloccando le rotative del New York Times e poi quelle del Washington Post (che aveva ricevuto dal NYT il resto della documentazione).

Il momento clou si ebbe con l’intervento della Corte Suprema. In una storica sentenza, 50 anni fa, stabilì che l’ultima parola sulla divulgazione di quei dossier segreti, potenzialmente ritenuti fondamentali per la sicurezza nazionale, spettasse al Publisher (l’editore) e non al governo. Per la maggioranza dei giudici supremi, l’editore e il direttore del giornale, nel prendere la decisione, avrebbero potuto tener conto del buon senso e anche dell’etica della professione giornalistica: insomma la loro scelta non era così scontata. Ma lo era invece, per sua stessa natura, la decisione di qualsiasi governo, che secondo la Corte Suprema avrebbe optato sempre per la censura in modo da evitare imbarazzi, inchieste e condanne, privando così il pubblico di informazioni preziose per poter giudicare l’operato del governo stesso.

La prima pagina del New York Times del 1 luglio 1971, con la decisione della Corte Suprema che consentiva al NYT di riprendere le pubblicazioni del rapporto segreto del governo chiamato “The Pentagon Papers”

Da quel momento negli USA nessun inquilino della Casa Bianca poté più fermare le rotative di un giornale (o dei siti su internet) semplicemente al grido di “lo impone la sicurezza nazionale”. Una fiducia nella libertà di stampa che pochissimi paesi nel mondo godono a questi livelli.

Così questo anniversario del mezzo secolo dai Pentagon Papers avviene mentre a Hong Kong vengono chiusi i giornali che criticano il regime cinese, mentre in Bielorussia un giornalista di opposizione al regime viene catturato in volo per poi essere torturato e mostrato alle telecamere dei giornalisti internazionali come trofeo di caccia… .Per non parlare di quando in un consolato saudita a Istanbul, un giornalista scomodo al regime venne fatto letteralmente a pezzettini.

La dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti firmata a Filadelfia

Queste riflessioni vengono in coincidenza di questo 4 luglio perché sta tutta qui la superiorità della democrazia americana sul sistema totalitario di stampo cinese o autoritario russo. Non dovevamo ascoltare il discorso del leader Xi Jinping per il centenario del Partito Comunista cinese per esserne convinti: è molto più rassicurante finire “prigionieri” degli americani che dei cinesi.

Questa settimana La Voce di New York ha chiesto all’ambasciatore Vassily Nebenzia che rappresenta la Russia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (qui al minuto 46), se ritenesse che le condizioni di sicurezza dei giornalisti nel mondo potessero essere  materia di discussione per il Consiglio e in che condizioni fosse secondo lui la libertà d’espressione. L’inviato di Vladimir Putin al Palazzo di Vetro, mente beveva dell’acqua da una bottiglietta di San Pellegrino, ha risposto dicendo che nei paesi menzionati nella domanda (Arabia Saudita, Hong Kong e Bielorussia) la situazione in effetti è problematica, ma ha subito aggiunto che bisognerebbe concentrarsi anche su come i giornalisti russi vengono trattati negli USA e in Europa… .

Ecco, il 4 luglio 2021, bisognerebbe ricordare perché dovremmo essere contenti che siano gli Stati Uniti d’America a guidare chi si vuol contrapporre ad un mondo dominato dalla Cina di Xi (magari in alleanza con la Russia di Putin). Nonostante tutte le distorsioni del sistema democratico americano, questa ragione è la libertà di poter esprimere dissenso nei confronti del dominatore. È la libertà d’espressione, inventata proprio dagli americani, che dopo l’indipendenza e la costituzione di Filadelfia, aggiunsero il cosiddetto “Bill of Rights”. Già, il Primo emendamento della Costituzione USA che trovò, quasi duecento anni dopo, il sigillo alla funzione di quarto potere della democrazia americana nell’interpretazione che la Corte Suprema diede al momento della decisione sulla pubblicazione dei Pentagon Papers, stabilendo così che il governo non avesse il diritto di imporre la censura.

La Corte Suprema con la bandiera a mezzasta per la morte del giudice Ruth Bader Ginsburg (Immagine da youtube)

La libertà di stampa in America non è più quella dei tempi d’oro degli anni Settanta. Il ranking ricevuto dagli USA negli ultimi anni lo dimostra, e qui non solo per la sbandata per Trump. Anche Biden, come già Obama, si è fatto pizzicare col suo Dipartimento di Giustizia a spiare i giornalisti nel tentativo di svelarne le fonti. Eppure, il valore del rispetto della libertà d’espressione, che gli americani hanno prima imposto a se stessi ed esportato all’estero, resta superiore a più di ogni altra “distorsione” nel sistema. Un modello di società, quello americano, che per questo finisce ancora per attrarre gran parte delle giovani generazioni nel mondo e che di conseguenza respinge i regimi autoritari cinesi e russi.

La Corte Suprema 50 anni fa ha protetto la libertà in America dando al mondo un modello da imitare. Restano i dubbi se, dopo gli sconquassi creati anche al suo interno da Trump, tornerà a difenderla quando sarà rimessa alla prova.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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