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La verità su Khashoggi? I Saud se ne fottono perché si sentono coperti da Trump

L'Arabia Saudita ammette la morte del giornalista dissidente dentro al suo consolato raccontando una storia incredibile e assolvendo il regime

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
La verità su Khashoggi? I Saud se ne fottono perché si sentono coperti da Trump

20 marzo 2018: Il Presidente Donald Trump con il principe saudita Mohammed bin Salman alla Casa Bianca, mostra i vantaggi del business con l'Arabia Saudita Photo Credit: Official White House Photo by Shealah Craighead)

Time: 5 mins read

Per il corso “Media & Democracy”, le prime parole per i miei studenti sono sempre le stesse: “Tutti i governi nel condurre i loro affari nascondono molto, quasi tutto della verità. Spetta ai giornalisti scoprire quello che i governi cercano costantemente di coprire”.

Ci sono governi che sono più bugiardi degli altri e si spingono fino a negare l’evidenza nel “cover up” delle loro nefandezze. Come quello dell’Arabia Saudita nel caso dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi.

L’Arabia Saudita ha finalmente riconosciuto che Khassoggi è morto, dopo aver ripetuto per due settimane tutto il contrario (“Khassoggi? E’ uscito dal consolato dopo un’ora e non sappiamo dove sia…”) e dopo aver mentito agli Stati Uniti – di cui Khashoggi, che scriveva per il Washington Post, era residente –  e al mondo intero. Ha anche ammesso che il giornalista è  stato ucciso dentro il suo consolato di Istanbul.  Ma la versione che il regime saudita ora racconta traballa tanto quanto ancora affermava di non sapere dove fosse finito il giornalista. Infatti, addirittura ora afferma di non sapere dove sia il corpo…

Il giornalista e dissidente saudita, Jamal Khashoggi, scomparso dopo essere entrato nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul

Cioè dovremmo credere che il 3 ottobre, il giorno dopo che Khashoggi entrò nel consolato di Istanbul, il governo di Riad ancora non sapesse che il giornalista fosse rimasto ucciso “dopo una scazzottata” con alcuni ufficiali che sarebbero stati mandati a incontrarlo per convincerlo a tornare in Arabia Saudita. A quanto pare, nell’incredibile ricostruzione che ora il governo di Riad vorrebbe che il mondo accettasse come la conveniente verità, sarebbero stati gli agenti sauditi mandati a Istanbul a mentire al loro stesso governo sulla sorte del giornalista. Lo avrebbero strangolato durante la colluttazione (che avrebbe iniziato il povero giornalista…) e poi avrebbero a sua volta cercato di “cover up” tutto al loro governo. Che solo per questo, per venti giorni,  avrebbe continuato a non ammettere la sua morte. Una volta accertati “i fatti”, ecco che i top del regime saudita avrebbero ordinato l’arresto dei suoi agenti implicati per poi, soltanto sabato notte, fornire al mondo “la verità”.

Ma davvero? E il corpo? Che fine ha fatto il cadavere del giornalista dissidente? E soprattutto, perché, se gli agenti inviati da Riad dovevano solo “parlare” con Khashoggi, si portavano dietro esperti di autopsie con seghe elettriche adatte a tagliare le ossa umane, come sarebbe stato accertato dai servizi della Turchia?

Assolutamente siamo ancora lontanissimi dalla verità, anzi continuiamo ad essere in pieno “cover up” saudita. E questo continuare a mentire da parte del regime saudita sulla fine di Khashoggi, continua ad essere favorito dall’atteggiamento di Donald Trump che fin dal primo giorno di questa crisi, ha fatto capire quanto sia importante per lui preservare il proficuo “business” miliardario della vendita delle armi ai sauditi.

Eppure forse, il Congresso a maggioranza repubblicana, questa volta non sembra dar corda al presidente ma sembra voler mettere sotto pressione i sauditi. Tant’è che lo stesso Trump da segnali discordanti, forse per accontentare tutti, quando da un lato sembra dar credito alle versioni del regime saudita per poi contemporaneamente non poter far altro che, in una intervista al Washington Post, ammettere quanto incredibili appaiano le varie versioni su quanto accaduto.

Ma questo atteggiamento sprezzante avuto finora dal Re saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud  e suo figlio, il Principe Mohammed bin Salman, nei confronti della propria responsabilità nei confronti di un omicidio di un giornalista avvenuto dentro le mura di una propria sede diplomatica, deriva dal fatto di sentirsi le spalle coperte ancora da Trump. Il re, infatti, non solo non licenzia da ogni incarico quel figlio che da quando è stato messo a capo degli affari di governo ha creato più nemici al regime saudita di quanto fossero riusciti a fare in 70 anni di avvicendamento al potere i vari figli del capostipite Ibn Saud (l’Arabia Saudita è l’unico paese al mondo che ancora porta il nome della famiglia che governa, appunto quella dei Saud). Ma addirittura lo “promuove” anche a capo di una commissione che dovrà“riammodernare” i servizi segreti del regno saudita, dopo che nella missione a Istanbul avrebbero mostrato la loro inettitudine.

Ma forse qualcuno vuol ancora credere, come avvolte sembra voler Trump,  all’ inettitudine da parte degli agenti sauditi? Semmai, secondo delle versioni fornite dai servizi Turchi e anche dalla Cia, la missione sarebbe stata preparata in tutti i particolari proprio per soddisfare gli ordini del Principe Mohammed bin Salman. Perché il principe non aveva previsto che avrebbe provocato la reazione del mondo civile? O semplicemente non la temeva affatto? Invece, deve aver pensato che l’unica persona di cui avrebbe potuto aver timore, il presidente degli USA – dai tempi di Franklyn Roosevelt, sono gli USA che proteggono il potere dei Saud sulle enormi riserve di petrolio della penisola Arabica – era quel Trump che nel suo primo viaggio all’estero da presidente aveva scelto la tappa a Riad per firmare tanti affari. E poi era lo stesso presidente che più volte aveva dichiarato  e twittato che “i giornalisti sono nemici del popolo”. Quindi dato che i nemici del popolo in Arabia Saudita finiscono decapitati…

21 Maggio, 2017: il Presidente Donald Trump e la First Lady Melania Trump in Arabia Saudita con il Re saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud, e il Presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi (Official White House Photo by Shealah Craighead)

Trump ha una chiara responsabilità morale su quello che é accaduto a Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul. Mai un Saud avrebbe potuto pianificare una fine così orrenda per un giornalista scomodo residente negli USA di uno dei maggiori giornali americani,  se alla Casa Bianca ci fosse stato un altro presidente. Se il figlio del re ha messo in moto un piano così e ha ancora il padre Re a coprirlo, è solo perché entrambi credono che il capo della Casa Bianca, dopotutto, continuerà a proteggerli. In nome degli enormi interessi economici tra Stati Uniti e Arabia Saudita

Il regime dei Saud in Arabia da tempo è convinto che con i soldi possa comprare tutto, soprattutto il silenzio nel mondo. Lo ha fatto quando è riuscita a far togliere da un rapporto ONU i passaggi che condannavano l’Arabia Saudita per le sue azioni criminali contro i bambini nella guerra in Yemen. O quando ha persino minacciato il Canada che criticava la persecuzione delle donne saudite impegnate nella difesa dei loro diritti civili, senza che Ottawa ricevesse alcun appoggio dalla Casa Bianca.

I Saud si sono sentiti così sicuri prima di poter squartare vivo un autorevole giornalista dissidente e poi, una volta ricattati dai turchi (niente illusioni, in questo caso la Turchia di Erdogan non ha altro interesse che continuare a far uscire piccoli pezzi di verità solo per essere pronta a ricoprirla del tutto se sarà generosamente “ricompensata”) per continuare a mentire con storie assurde perché sentono che alla Casa Bianca c’è chi “comprende”. Già, Trump al potere negli USA significa anche questo, regimi criminali nel mondo che diventano più aggressivi grazie al “don” che li protegge. Ormai l’America, che una volta aspirava al ruolo di protettrice dei dissidenti, è diventata con Trump fonte ispiratrice per tutti i macellai del mondo che se ne fottono dei diritti umani, figurarsi della libertà d’espressione e di stampa.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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