L’incedere preoccupante della pandemia, che sta investendo l’Europa con la sua seconda ondata, rimette sulle prime pagine italiane le polemiche sulle restrizioni volute dal governo Conte, che un DPCM alla volta torna a stringere i controlli. Dopo mesi in cui il focus si era temporaneamente spostato su altri temi, come la riapertura delle scuole e la diatriba sul recovery fund, negli ultimi giorni siamo tornati a parlare dei comportamenti di base, Pandemia 101: mascherine dappertutto, igienizzante mani, distanziamento.
Il consenso scientifico sul funzionamento di queste misure è unanime, eppure abbiamo tutti sotto gli occhi esempi, illustri e non, di persone che non rispettano le indicazioni, a volte facendone anche una questione di principio (movimento No Mask, parliamo di te). Molti tasselli si incastrano a formare il puzzle dei comportamenti della popolazione di fronte alla pandemia. Studiosi di medicina e psicologia di tutto il mondo hanno raccolto dati e analizzato campioni di migliaia di persone per cercare di capire che cosa distingua chi osserva le regole da chi non le osserva, il mascherinato dal non mascherinato.
La prima domanda che ci si pone è piuttosto intuitiva: ma sarà una questione di carattere individuale? Una delle principali teorie della personalità, per quanto certamente non la sola, si chiama Teoria dei Big Five. È una sorta di fotografia della personalità sulla base di cinque grandi dimensioni, che influenzano il comportamento in tutti gli ambiti, dalle scelte di carriera alle decisioni economiche… alle misure anti-COVID? A quanto pare sì. Alcuni studi dimostrano che gli individui con alti punteggi nella scala della coscienziosità e della gradevolezza tendono a seguire più scrupolosamente le direttive sanitarie, a mantenere le distanze e a tirarsi per bene gli elastichetti della mascherina dietro le orecchie. Al contrario, chi ha alti punteggi di “estroversione” ha particolari difficoltà nel mantenere corretto distanziamento sociale.

Fin qui, niente di nuovo: la coscienziosità è la tendenza ad essere attenti, prudenti, affidabili; la “gradevolezza”, traduzione italiana un po’ fuorviante del termine agreeableness, riflette la condiscendenza, la conformità alle regole, l’inclinazione ad aiutare; d’altro canto, l’estroversione si caratterizza proprio per la tendenza a trarre energia dall’interazione con gli altri, cercare il contatto con l’esterno. Insomma, non abbiamo scoperto la luna, senza voler sminuire il lavoro dei ricercatori.
Una seconda questione interessante: che ci sia una qualche correlazione tra comportamenti sanitari e fattori cognitivi? Ancora una volta la risposta sembra essere sì. Uno studio condotto su un campione statunitense ha in effetti riscontrato che l’adesione alle pratiche di prevenzione correla con un costrutto che in psicologia si chiama working memory. Working memory, letteralmente, significa memoria di lavoro, ed indica la capacità di tenere a mente più pezzi di informazione, per decidere come comportarsi nel modo più adatto. Nel nostro caso, per esempio, tenere ben presenti al contempo le proprie necessità e le limitazioni da rispettare per non mettere a rischio la salute propria e altrui.

Un ulteriore dato singolare: religiosi fondamentalisti o molto conservatori hanno, almeno inizialmente, ignorato, e a volte anche criticato, le regole di prevenzione COVID. È stata riscontrata una correlazione tra la religiosità individuale e la tendenza a mettere in atto comportamenti irragionevoli, come comprare grandi quantità di carta igienica o barricarsi in casa con una fornitura annuale di zuppe precotte.
Piccole pennellate di informazione, che magari accentuano i chiaroscuri di un dipinto che, però, ha chiaramente un soggetto ben diverso: la quantità e la qualità di notizie ricevute.
I ricercatori concordano che la frequenza di comportamenti sanitari di prevenzione correli con il livello di esposizione a dati scientifici. La qualità delle informazioni consumate non può essere sottostimata: una ricerca condotta in Italia durante il primo mese di lockdown ha riportato che avere convinzioni non scientifiche sul COVID-19 sia legato ad un maggiore malessere, nella forma di ansia o depressione.
Purtroppo, a questo punto, tocca calarsi nel discorso politico. La politica ha certamente giocato il suo ruolo. Per una volta, non parliamo dei soliti noti, ma buttiamoci sull’esotico e guardiamo i canadesi: in Québec, tra l’11 e il 12 Maggio la popolazione che nei sondaggi riporta di indossare la mascherina è raddoppiata. Cosa è successo? Che dal 12 Maggio il premier Légault ha iniziato a portare la mascherina. Il valore dell’esempio portato dai leader mondiali insomma è innegabile.

Forse proprio la politicizzazione della pandemia permette di distinguere l’atteggiamento statunitense verso le misure di sicurezza da quello dell’Italia, che da “fantasma di un futuro distopico” è diventata modello per gli altri Paesi (per una volta!). In Italia le principali forze politiche che hanno minimizzato la pericolosità della situazione, e a tratti violato le norme sanitarie indicate dal Comitato Tecnico Scientifico, sono forze di opposizione, relegate quindi ad una posizione di relativo “svantaggio”, quantomeno sui media tradizionali. Al contrario, negli Stati Uniti, è stata la stessa amministrazione del 1600 Pennsylvania Avenue a fornire informazioni contrastanti e a fomentare l’incertezza.
Sull’importantissima rivista scientifica Nature, che solo recentemente ha iniziato a pubblicare infuocati editoriali a sfondo politico dopo decenni di onorato servizio super partes , la settimana scorsa è uscito un articolo dal titolo “Come Trump ha danneggiato la scienza”, in cui l’epidemiologo Jeffrey Sharman della Columbia University addirittura si riferisce all’operato del presidente definendolo “non inettitudine, ma sabotaggio”. Le statistiche sono dalla sua parte: chi si fida di Trump non si fida della comunicazione ufficiale, inclusa quella scientifica.
Ho contattato la dottoressa Stojanovic, che al Montreal Behavioural Medicine Centre segue una delle poche raccolte dati a livello mondiale sulla risposta alla pandemia, tra le più complete e interessanti prodotte per ora, i cui risultati saranno presto disponibili online. Nonostante i dati siano ancora preliminari, e dunque vadano interpretati con cautela, la ricerca mostra che gli italiani considerino l’Organizzazione Mondiale della Sanità la fonte di informazione principale. Invece, negli Stati Uniti, al posto della scienza, la principale fonte di informazione sono notiziari TV, radio o online. Lo studio non dice nulla a riguardo, ma viene spontaneo pensare che la decisione di Trump di ritirare i fondi all’OMS abbia influito.
Molto indicativi di quanto sia stata efficacemente politicizzata la pandemia sul suolo US sono i dati sullo spaccamento del pubblico americano sull’emergenza, in base all’orientamento politico. Ancora una volta, leggendo le statistiche, si ha la sensazione che ci siano due Americhe che convivono, ma condividono ben poco altro: i repubblicani danno più fiducia a ciò che viene loro detto dall’amministrazione Trump dei dem, sono molto più ottimisti sulle condizioni economiche che possiamo attenderci tra un anno, perché ritengono che il peggio sia già passato e che la situazione sia meno seria di come la vedono i loro vicini democratici. I democratici, d’altro canto, utilizzano molto di più le fonti ufficiali per informarsi al di fuori di ciò che Trump comunica. Sono molto più convinti dell’importanza delle azioni individuali nel ridurre i contagi, dell’importanza dell’indossare la mascherina e del distanziamento sociale. Riportano livelli di fiducia più alti negli scienziati, a cui vorrebbero affidare anche le decisioni del governo.
A Gettysburg, una settimana fa, sul suolo più storico che gli Stati Uniti hanno da offrire a un oratore, Joe Biden ha tenuto un discorso elettorale sull’impellenza di riavvicinare queste due Americhe diametralmente opposte, rimarcando anche l’importanza di riunificare la nazione sull’importanza della scienza. Su questo tema, davvero gli Stati Uniti non possono permettersi di essere ancora a lungo “a house divided”.
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