Questo non ha la pretesa di essere un ritratto, né tantomeno un elogio funebre. È soltanto un ricordo personale. Giulietto Chiesa non era un giornalista nel senso tradizionale di cronista che si limita a raccontare dei fatti, o che li commenta.
“Comment is free, but facts are sacred”, era il motto di C.P. Scott, storico direttore per mezzo secolo del Manchester Guardian, oggi The Guardian. La missione del giornalista di idee liberali secondo Scott è duplice. Verificare anzitutto e riferire imparzialmente dei fatti, e poi commentarli liberamente trasformandosi in opinionista. Tutto qui.
Altrimenti, avvertiva il fondatore del Guardian, se si confondono i fatti con le opinioni, il giornalismo e chi lo pratica finiscono per sprofondare sempre nella propaganda: ovvero in quella che oggi si usa descrivere con espressione intellettualmente disonesta come “fake news”. Non informazione dunque, ma disinformazione, messa in circolo con l’obiettivo di per orchestrare il consenso trascinando gli ingenui verso fini politici, commerciali o militari che i manipolatori mediatici vogliono tenere nascosti.
Giulietto Chiesa questo meccanismo perverso, così come veniva praticato nei regimi comunisti o fascisti l’aveva capito alla perfezione. Ma diffidava anche dello schematismo liberale che spesso, con la distinzione fra fatti e opinioni, secondo lui si preoccupava soprattutto di mantenere lo status quo. In questo senso perciò era tutt’altra cosa dal giornalista, ma anche dall’ideologo tradizionale. Era un comunista e non si vergognava di ammetterlo. Ma, se alla luce dei fatti capiva che i dogmi non portavano da nessuna parte, era sempre pronto a cambiare idea.
Allevato nelle file del movimento giovanile comunista del PCI e nel clima di pragmatismo ideologico della Scuola delle Frattocchie dalla quale uscirono dirigenti del rango di Enrico Berlinguer, al giornalismo a tempo pieno era approdato a quarant’anni, come semplice redattore ordinario dell’Unità, quotidiano di quello che era allora il più potente e rispettato partito comunista dell’Occidente. Ma era chiaro che le sue potenzialità miravano in alto. Se ne rese conto perfino il Dipartimento di Stato americano, che ignorando il veto allora in vigore contro i comunisti lo invitò a trascorrere un periodo di studio e a tenere conferenze negli Stati Uniti.
Da allora l’ascesa di Giulietto Chiesa prese il volo, anche se geopoliticamente in direzione opposta. Corrispondente da Mosca per anni dell’Unità, poi passato a La Stampa, e in pratica quasi plenipotenziario del PCI al Cremlino, il “compagno Chiesa” – che nel frattempo si era studiato diligentemente il russo e soprattutto gli organigrammi del PCUS – era divenuto, non solo per i sovietici, ma anche per l’Occidente un interlocutore rispettato e privilegiato.
Il nostro incontro, come qualche volta succede, avvenne in maniera inattesa anche se poi a Mosca finimmo per diventare vicini di casa. Da New York, dove lavoravo come corrispondente del Corriere della Sera, fui mandato a seguire lo storico viaggio del presidente americano Reagan a Mosca. Allora l’America era “grande” sul serio, rispettata e temuta. Ma in Russia, con mia enorme sorpresa, non trovai il minimo indizio di ostilità: anzi di amichevole curiosità. Era il giugno del 1988 e il sole splendeva perché l’estate in Russia incomincia presto. Per rinfrancarmi dopo il lungo viaggio, mi infilai la maglietta ricevuta dai russi all’arrivo in regalo con sopra scritto Summit ‘88 MOCKBA e sotto le bandiere dell’URSS e degli Stati Uniti. Correvo accanto alla Nàberezhnaya, il Lungo-Moscova, e la gente ogni tanto salutava chiedendo: “Amerikànets?”. “Nyèt Italiànetz!” rispondevo. Grandi sorrisi. Che poi, soprattutto fra gli studenti, aumentarono quando i più intraprendenti scoprirono che, entrando con noi nella sala stampa, potevano telefonare gratis e senza controlli (cosa allora inaudita) in tutto il mondo.
Il clima era questo. Nella sala a gradinate della Mezhdunaròdnaya Gostìnitsa (Hotel Internazionale) davanti ai media e diplomatici di ogni nazione parla Gorbachëv. “Come dice il mio caro amico Giulietto Chiesa, dobbiamo rilanciare il discorso della perestrojka e della glasnost…”Giulietto Chiesa? Who is this guy?” domandano i colleghi americani disorientati.
Passano gli anni. L’URSS è crollata e Boris Yeltsin è il nuovo presidente. Giulietto Chiesa non sa darsene pace. Dice (e ha ragione) che con Yeltsin i ladri rubano, gli oligarchi fanno quello che vogliono, la Russia sprofonda nel caos. Passeggiamo, io e un’amica venuta da Milano davanti al cancello di casa sulla Prospettiva Kutùzovsky. All’entrata si aggira Giulietto che aspetta in attesa qualcuno e spiega evasivo che ha un paio di ospiti a cena. Si avvicinano una dopo l’altra due Zil nere dell’era sovietica. Escono sorridenti Gorbachēv e la moglie Raissa. Io e l’ospite siamo vestiti decentemente perché pensiamo di andare a cena e Raissa, che è una persona espansiva, crede per un istante che siamo invitati anche noi. Giulietto mi fa un gesto con le sopracciglia per dire di no. “Mi dispiace ma abbiamo un impegno” improvviso io, mentre gli ospiti si infilano con il padrone di casa dentro l’angusto ascensore.
Con Giulietto Chiesa ci siamo visti un’altra volta a Grozny in Cecenia, durante le elezioni che come ha capito benissimo, sono state già decise in partenza. Lui di come stanno andando le cose in Russia e in Occidente non è affatto contento. Dice che Yeltsin è un democratico sì, ma pasticcione. Quanto a Putin, paracadutato dal KGB che è una delle poche istituzioni che funzionano, è scettico. Resta sempre dell’idea che con la Russia l’Occidente farebbe bene a mettersi d’accordo ma capisce che l’Europa è divisa e che l’America non si rassegna al fatto di avere perso l’egemonia, mentre la Russia con Putin sta diventando più autoritaria.
Ecco, così era Giulietto Chiesa, un comunista in colbacco baffuto che sembra la controfigura dell’homo sovieticus, ma con un istinto politico che gli fa capire quella che è l’essenza della politica, a Mosca come a Washington, e in Vaticano come in Afghanistan: l’arte del possibile, e niente di più. Giulietto, che nel corso della sua vita è stato anche parlamentare europeo, fondatore di televisioni alternative e collaboratore del canale di propaganda putiniana Sputnik News, perché ha capito che nel mondo multilaterale l’America non può fare più quello che vuole, e prima o dopo si dovra mettere d’accordo anche con Putin e con Xi, è sempre stato quello che gli inglesi definiscono “a contrarian”: un Bastian contrario che però lascia sempre aperta la porta per l’inevitabile compromesso. Nel mondo attuale dell’antipolitica e dell’incompetenza travestita da populismo, ci mancherà.
Sotto il tributo di PandoraTv, la televisione on line fondata da Giulietto Chiesa.