Fino a qualche anno fa trovavamo la parola “storytelling” un po’ dappertutto. Non si trattava solo della pratica ormai consolidata in Italia a ogni livello di affidarsi a termini stranieri, il più delle volte inglesi. C’era qualcosa di particolare in questa parola, suscitava una specie di ossequioso assenso non appena veniva evocata. Bastava buttarla lì per impreziosire un ragionamento, valido o raffazzonato che fosse, ed ecco che succedeva la magia.
Ormai è diventato di uso comune, non ci facciamo neanche più caso. Tanto ha attecchito nel nostro parlare e nel modo di comunicare – e non solamente all’interno di qualche slide di marketing – che forse abbiamo smesso di domandarci veramente cosa intendiamo quando parliamo di storytelling, oppure sappiamo di cosa parliamo ma evidentemente ce lo siamo dimenticati.
Durante l’emergenza del coronavirus c’è stato raccomandato più volte di dover e poter fare ognuno la nostra parte anche se non siamo medici o infermieri. Basta stare a casa e già si contribuisce ad affrontare questa drammatica situazione. La condizione di isolamento non è dunque passiva, assume un ruolo attivo; possiamo fare tanto apparentemente smettendo di fare quello che facevamo prima, cioè uscire, lavorare e vivere come vivevamo. Ed è vero, oltre che giusto e ragionevole.
Eppure durante questa inedita esperienza manteniamo una certa asimmetria rispetto a chi sta effettivamente tentando di affrontare e risolvere l’emergenza, e non possiamo fare altro che obbedire e fidarci. La fiducia è tutto. Nelle istituzioni centrali, nelle amministrazioni locali, nei medici, negli scienziati e, non meno importanti, in chi ci racconta ciò che succede, ovvero i giornalisti e i conduttori.
Proprio riguardo alla gestione della comunicazione sia da parte delle istituzioni sia da parte dei media, specie all’inizio, si è ampiamente discusso. Sappiamo bene cosa ha provocato la fuga di notizie che ha dato in pasto agli italiani la bozza del decreto che avrebbe messo in quarantena la Lombardia. Se in un primo momento abbiamo puntato il dito contro chi ha affollato le stazioni del nord per scappare al sud, col passare dei giorni ci siamo resi conto che quella reazione così irrazionale è stata pur sempre innescata da un gesto altrettanto irresponsabile.
Sembrava perciò esserci stata l’occasione per riflettere sul modo in cui, in parallelo agli sforzi medici, si dovesse e potesse affrontare il coronavirus sul piano della comunicazione, ragionando appunto su uno storytelling dell’emergenza. La narrazione della crisi, però, ha continuato a fare affidamento su termini, pratiche e abitudini che purtroppo caratterizzano in negativo la comunicazione da tempo, ben prima della diffusione del Covid-19.
Il sensazionalismo, l’analisi grossolana, la ricerca frettolosa di buoni e cattivi, di eroi e di nemici della patria. In un momento in cui gli italiani non possono far altro che fidarsi di ciò che viene loro detto, la confusione e la disinformazione hanno dilagato tanto quanto il virus, rendendo sempre più difficile la comunicazione e di fatto quasi vanificando l’occasione di proporre finalmente una narrazione di qualità, mai come ora di vitale importanza.
È successo così che la narrazione dominante sia diventata in fretta quella bellica e, come hanno perfettamente scritto Matteo Pascoletti su Valigia blu e Annamaria Testa su Internazionale, la cronaca dell’emergenza ha preso in prestito il lessico della guerra. Il nostro vocabolario quotidiano si è già tristemente abituato all’uso frequente di parole ed espressioni come “focolaio”, “paziente zero”, “pandemia”, “tampone”, “picco”, “distanza sociale”, “isolamento”, “curva dei contagi” ecc… A ciò si è aggiunta una vera e propria corsa lessicale agli armamenti, dove i medici e gli infermieri – il cui valore non è assolutamente messo in discussione – diventano “eroi”, gli ospedali delle zone più colpite sono il “fronte” o la “trincea” e tutti gli sforzi della politica e dei cittadini si trasformano nella guerra che fortunatamente manca in Italia da settantacinque anni, ma che si è stati così svelti a rievocare, impropriamente.
Il problema è che la narrazione bellica suscita emozioni e reazioni precise. Raccogliersi e farsi forza cantando l’inno nazionale e ritrovare, se non riscoprire, un senso della patria non deve necessariamente e in modo automatico accompagnarsi e svilupparsi in una comunicazione da combattimento. Invocare il pugno duro contro chi non rispetta le regole eccezionali è una cosa, augurarsi imposizioni che stridono con la democrazia è un’altra.
Sentiamo sempre dire che agli italiani piace e serve il fantomatico “uomo forte” e che siamo un popolo allergico alla disciplina. In realtà questa emergenza è l’ennesima dimostrazione di quanto sia vero il contrario, cioè che soltanto con l’unione delle forze, la collegialità, la condivisione, la comprensione reciproca e la solidarietà si possono affrontare le tragedie di questo tipo. E anziché concentrarci sulle eccezioni e parlare soltanto delle minoranze da additare e stigmatizzare, dovremmo ricordarci (e ci dovrebbero ricordare) che nella stragrande maggioranza dei casi gli italiani rispettano eccome le regole, anche quando comportano uno stravolgimento epocale della loro vita che avrà implicazioni altrettanto eccezionali nel loro futuro.
Se proprio non ce la facciamo a non parlare di “eroi”, sarebbe dunque bene tenere a mente che insieme ai medici e agli infermieri che in ogni momento fronteggiano il coronavirus, anche i professionisti della parola dovrebbero provare a tirar fuori uno spirito eroico, per così dire, comportandosi con responsabilità, rinunciando quindi alla ricerca dell’emozione facile, positiva o negativa che sia, e pesando ogni singola lettera di ciò che si dice e si scrive. Un popolo chiuso in casa e costretto a convivere con l’angoscia in ogni spostamento e attività lavorativa ancora permessa merita di essere informato senza dover ulteriormente scendere a compressi con la paura o essere messo di fronte alla costante evocazione della guerra.
Si può ancora e si deve raccontare il coronavirus con le parole corrette e proprio questa situazione spinge a essere il più possibile precisi, perché affidarsi all’approssimazione o addirittura alle manipolazioni può diffondere nelle persone già atterrite dalla pandemia un’infezione ancora più invisibile ma altrettanto nociva: la sfiducia verso chi ci racconta la realtà e dovrebbe permetterci di conoscerla meglio, per farci trovare la forza di affrontarla.