Purtroppo ogni giorno si ha la conferma che la storia non procede come una linea retta. E’ fatta di “rotte” e percorsi contorti, contraddittori: spesso a un primo passo verso una direzione ne seguono dieci in quella opposta; e vale per ogni processo di rinnovamento, di convivenza decente: quando per esempio sono scoppiate le cosiddette primavere arabe, in molti hanno nutrito la speranza che si trattasse di processi capaci di instaurare regimi democratici così come in Occidente li conosciamo. Illusorio, pensare che quello che in Occidente si è acquisito dopo secoli, potesse essere conquistato in pochi anni, in pochi mesi; paesi atavicamente “governati” in modo feudale, oppressivo non diventano culle di democrazie nello spazio di giorni. La formazione di classi dirigenti richiede tempo; e spesso il “liberatore” è semplicemente qualcuno che si vuole sostituire al precedente oppressore. La democrazia in realtà che neppure conoscono il significato di questo termine, non si esporta e non si impone; la si può favorire, a patto di essere consapevoli che sarà un cammino lento, faticoso: che richiede pazienza e tempo, tanto tempo. Come è stato lento, e ha richiesto pazienza e tempo da noi, in Occidente. Oltretutto non è neppure un qualcosa di definitivo, tutt’altro: la democrazia è gracile; va costantemente difesa, nutrita, coltivata. Con l’informazione, la conoscenza, l’educazione.
Fatta premessa, se – pur lentamente, faticosamente – in paesi africani e asiatici germi di democrazia lieviteranno, e la nostra generazione ne potrà cogliere i “segni”, sarà molto probabilmente grazie alle donne.
Avrà forse ragione il candidato democratico Bernie Sanders quando sostiene che gli Stati Uniti ancora non sono pronti ad avere un presidente donna (in Europa, da questo punto di vista, a quanto pare siamo di gran lunga più avanti, e non da ora). Ed è anche vero che non basta esser donna per essere “migliore”: la storia documenta che non mancano esempi in cui le donne fanno una discreta concorrenza, in negativo, agli uomini. Tuttavia, per quel che riguarda Africa e Asia (almeno una certa Africa, una certa Asia), forse proprio le donne, perché donne, saranno le levatrici di un qualcosa che può legittimare speranza che si sprigionino processi positivi, significativi.

Penso al recente e coraggioso annuncio di una giornalista della televisione di stato iraniana, Gelare Jabbari e di altre sue due colleghe. Per ore e ore la TV iraniana riporta la notizia della morte di un’ottantina di soldati americani negli attacchi contro le basi in Irak, in risposta all’uccisione del generale Soleimani. Notizia assolutamente falsa. Sempre la televisione iraniana per ore e ore assicura che l’aereo ucraino partito da Teheran è precipitato per problemi tecnici. Altro falso.
E’ un caso che a dire “basta” siano state tre donne, che siano state loro a dimettersi dai loro incarichi, e non l’abbiano fatto colleghi maschi? Gelare Jabbari, scrive su Instagram: “Perdonatemi per avervi mentito per 13 anni. Non tornerò mai più in televisione“.
Per restare in Iran. La Resistenza Iraniana rende noto che le forze di sicurezza ha ucciso migliaia di persone, nei giorni della repressione delle proteste scoppiate nel paese; almeno quattromila i feriti, oltre diecimila le persone arrestate. Tra le vittime, almeno 400 donne, diciassette le adolescenti. Il Comitato femminile del Consiglio nazionale della resistenza iraniana ha compilato una lista di nomi di vittime sicuramente identificate:
Ameneh Shahbazifard, 34 anni, madre di tre figli; Azadeh Zarbi, 28 anni; Azar Mirzapour Zahabi, infermiera, madre di quattro figli; Bita Khodadadi; Chan’ani, una giovane ragazza; Elaheh Rastegar; Esmat Heydari; Fatemeh Habibi; Fatemeh Haqverdi; Fariba Al-e Khamis; Fariheh Karimzadeh; Golnar Samsami, 34 anni, madre di un bambino di otto anni; Halimeh Samiri; Hasineh Atighi; Kowsar Baghlani; Kowsar Tab-e Matouqi; Mahnaz Mehdizadeh Nader; Maryam Esmaili; Maryam Eidani; Maryam Nouri; Marzieh Abbaszadeh; Massoumeh Darabpour; Mohaddeseh Moghaddam; Mina Sheikhi, 59 anni, madre di sei figli; Nasrin Baghlani; Nassim Ghorbani; Nikta Esfandani, 14 anni; Nikta Khazaii; Parisa Seifi; Parvaneh Seifi; Reyhaneh Maleki; Samaneh Zolqadr; Soheila Fallahzadeh; Shahla Baldi; Shahla Rezaeipour; Sepideh Hassani; Shabnam Dayani; Shelir Dadvand; Umm-e Walid; Yas Soleimani; Vida Shakibaii; Zahra Sajedi; Zeinab Asakereh; Zeinab Nissanpour; Ziba Khoshgovar…
Non so quanti conoscano la storia, una vera e propria Odissea, di Yalda Abbasi. E’ una donna di 31 anni di etnia Rojava; ne ha i caratteristici tratti somatici: ciglia lunghissime, capelli e occhi scuri. Fin da quando è poco più che adolescente porta le antiche epopee d’amore in musica della sua etnia in tutto il mondo, recupera un tradizionale strumento curdo a corde, il dotar; dagli anziani impara le “parole d’amore” dei vecchi brani. Una passione che le causa molti problemi. I tribunali iraniani hanno molto da eccepire sulla sua musica; e ha avuto l’onore di essere “ospite” delle carceri turche, “colpevole” di aver devoluto i proventi di un suo concerto ai bambini di Afrin: “In Iran non è possibile per una donna cantare da sola in pubblico, né incidere un disco in cui non ci sia anche una voce maschile di accompagnamento. Ero molto giovane quando, quasi ingenuamente, ho imparato a suonare e cantare dagli anziani del Khorasan, nel Nord-Est dell’Iran, e ho deciso di caricare dei video sui social“. Un gesto banale per un ragazzo occidentale con questa passione, ma non per una donna in Iran: “Sono stata convocata in tribunale e il processo è durato otto mesi: si è concluso con una multa e il divieto di uscire dai confini dello Stato per due anni“. Per il solo aver registrato un video dalla sua camera.
Yalda non si è fermata e sono stati proprio i social a fare la sua fortuna: oggi ha oltre 200 mila follower e la ‘spunta blu’ di Instagram che viene data soltanto alle persone davvero famose: “I curdi di tutto il mondo hanno cominciato ad ascoltarmi, anche se io all’inizio suonavo e cantavo solo ad orecchio, e così è iniziata la mia carriera. Ora vivo della mia musica: nell’ultimo che ho realizzato a Berlino c’erano 15 mila persone“. E poi Belgio, Svizzera, Canada, Francia, tutti i Paesi dove le comunità curdo-iraniane, molte delle quali formatesi in seguito alla diaspora e a molte guerre, si sono stabilite. Una carriera che non è ben vista dalle autorità di Teheran: ogni volta che torna trovare la sua famiglia, rischia di vedere il suo passaporto trattenuto; ad ogni ritorno in Patria è costretta a dover giustificare al tribunale tutti i suoi spostamenti: “Devo spiegare che i miei canti non sono politici. Che parlato d’amore e che non sponsorizzano alcuna organizzazione. Mi contestano che il dialetto della mia regione ho fatto conoscere al mondo il fatto che i curdi vivono anche nel Nord dell’Iran, oltre che in Siria, in Turchia e in Iraq. Le autorità di Teheran credono che questo in qualche modo rafforzi il sentimento patriottico. Il mio canto mi dà da vivere: è un lavoro, e non ha niente a che fare con la politica. Certo voglio che i miei concerti abbiano anche un fine benefico: sono ambasciatrice del Maaf, un’associazione che cura i bambini mutilati di Afrin, nel Rojava curdo siriano“.
A causa di questo impegno ha passato, un paio d’anni fa, una notte nelle carceri turche, ed è stata costretta a pagarsi un avvocato per farsi liberare. Se le viene chiesto che cosa la spinge a sopportare tutto questo pur di cantare, risponde: “Questo era il sogno di mia madre. Lei da giovane era una cantante bravissima, prima che l’Iran cambiasse e diventasse quello che è oggi. Poi ha dovuto abbandonare il suo sogno, ma continua a seguirlo con me. Quando torno nel mio Paese ci esibiamo ancora insieme“. Naturalmente sempre accompagnate da una voce maschile.
Yalda Abbasii vive in Italia, a Milano: studia canto barocco al Conservatorio; la commissione esaminatrice è stata letteralmente stregata dalla sua voce, accompagnata dal suo liuto tradizionale.
Si parlava all’inizio di processi lenti, contorti, contraddittori. Per restare in Iran: prima dello sciagurato avvento dell’ayatollah Komeini (in virtù di una “rivoluzione” in Occidente guardata con ammirazione e trepidazione da tanti maitre à penser (che hanno scambiato i loro desideri per fatti, e certo in quell’occasione non sono stati maestri), era “governato” dallo Scià Mohammad Reza Pahlavi, che non era certo tenero con il dissenso. La sua Savak ha fatto di tutto e di più. Eppure, qui è la contraddizione, pur regime autoritario e violento, le donne iraniane, fin dagli anni Venti del secolo scorso potevano fare a meno del velo; e negli anni Trenta conquistano il diritto di poter circolare a capo scoperto. Prima dell’avvento degli attuali fanatici intolleranti che “governano” l’Iran, le donne indossavano tranquillamente minigonne, sandali, in spiaggia in bikini, a passeggio in shorts; dal parrucchiere a sistemare i capelli come a loro piaceva… Quell’Iran che nel 1968, prima di tanti paesi occidentali, ha avuto una signora, Farrokhroo Parsa, ministro dell’educazione (nell’ultimo governo pre-“rivoluzione”; Parsa, ha poi pagato caro questo suo battersi per i diritti delle donne: l’8 maggio 1980 è stata uccisa a Teheran, da un plotone di esecuzione). Nell’Iran di oggi accade che Marjane Satrapi, venga gettata in una cella “colpevole” di una vignetta; accade che Nasrin Sotoudeh, avvocatessa dei diritti umani, sia condannata trentatré anni di carcere. Se cambierà mai qualcosa, lo si dovrà a loro.