In queste ultime due settimane sono stati pubblicati centinaia di articoli sui quattro fondatori bolognesi del movimento delle “6000 sardine contro Salvini”: Mattia Santori 32 anni, laureato in scienze politiche e collaboratore per una rivista legata a Romano Prodi, Roberto Morotti, 31 anni, ingegnere, Giulia Trappoloni, 30 anni, fisioterapista e Andrea Garreffa, 30 anni, guida turistica.
In tutti quegli articoli, servizi televisivi e per il web, i quattro bolognesi sono sempre stati descritti come “ragazzi”. Nel giornalismo italiano, quest’appellativo viene usato indifferentemente per gli uomini e per le donne.
Da oltre trent’anni conduco una battaglia quasi solitaria contro quest’abitudine a mio giudizio profondamente errata, denunciando questo malvezzo tipicamente e unicamente italiano di chiamare “ragazzi” persino i quarantenni.
Negli altri paesi europei (e anche negli Stati Uniti), è accettato da tutti il fatto che a 18 anni si diventa donne/uomini e comunque adulti per cui – volenti o nolenti – occorre diventare responsabili (anche penalmente) delle proprie azioni e di ogni cosa che si afferma. Nel Nord Europa, i diciottenni vanno all’università lasciando casa, trovano un lavoro e vanno a vivere da soli o con altri studenti e/o lavoratori. Addirittura, tra loro c’é chi si sposa e alcuni che fanno pure figli.
E’ pur vero che se una volta i “ragazzi” italiani continuavano volontariamente – fino a e oltre ai quarant’anni – a vivere a casa con mamma che lavava, cuciva e stirava, oggi un numero sempre crescente di giovani è costretto a farlo dalla difficoltà di trovare un lavoro e/o ancor più un lavoro che permetta loro di mantenersi da soli.
L’aspetto particolare che mi ha sempre dato fastidio di quest’uso della parola ragazzi è che simbolizzava un diffuso rifiuto di assumersi le proprie responsabilità che contraddistingueva tanti giovani – e non soltanto giovani – italiani, e che tante volte induceva vicini di casa e conoscenti (e non solo i genitori) a giustificare i colpevoli di crimini riprovevoli, sempre descritti come “bravi ragazzi”.
Non è un caso che quando si vuole sminuire l’importanza o anche la gravità di un’azione illecita o anche criminale, si dice che è stato una “ragazzata”, per dire che si tratta di qualcosa di poco conto o comunque qualcosa che è stato fatto da qualcuno che non si rendeva conto di ciò che faceva, ecc.
Gli organizzatori delle sardine di Bologna sono tutti trentenni che lavorano, in modo più o meno precario, per cui sono certamente adulti. Volendo, si possono anche chiamare “giovani” ma ragazzi proprio no.
Chiamarli ragazzi, a mio avviso, è un modo furbesco di mancargli di rispetto e di insinuare furbescamente un messaggio tipo “OK, avete giocato, siete stati bravi ad organizzare la vostra manifestazione, adesso toglietevi dalle scatole e lasciate fare ai grandi, cioè ai vecchi politicanti che hanno smesso da un pezzo di avere idee, meno che mai idee costruttive e proposte concrete.
Dopo la prima manifestazione delle sardine, che ha avuto luogo a Bologna, il 14 novembre 2019, i quattro fondatori del movimento sono stati intervistati un’infinità di volte da giornali e TG, e uno di loro, Mattia Santori, è diventato un ospite fisso in molti talkshow, presentato sempre come un “ragazzo”.
Personalmente, per Mattia Santori e tanti suoi coetanei, preferisco usare la parola “giovani”, magari precisando ulteriormente “giovani uomini e donne”.
A proposito di Santori, un collega mi ha detto che secondo lui la parola “ragazzo” era un modo benevolo per descrivere un contestatore trentenne, in t-shirt, senza cariche politiche, insomma un ragazzo.
A mio avviso, l’aggettivo “benevolo” sostiene il mio argomento perché – inconsapevolmente – è accondiscendente e sottintende l’idea che la persona in questione sia “inesperta, alle prime armi, non professionale” e quindi sminuisce l’importanza di quello che sta facendo, e cioè impegnarsi personalmente e disinteressatamente per il bene del proprio paese. E, questo, non è cosa da poco, non è roba da ragazzi.
Va sottolineato che il coinvolgimento di Santori nella fondazione e nella propagazione nazionale delle sardine non è una sciocchezza, non è stato fatto inconsapevolmente ma è un’attività ponderata che potrà avere importanti conseguenze sulla politica e sulla vita di questo paese – per esempio, potrebbe determinare la sconfitta di Salvini alle elezioni regionali in Emilia-Romagna – e quindi l’adulto Santori merita di essere preso sul serio e trattato col rispetto che merita.

Come ho scritto prima, ragazzi viene adoperato indifferentemente per donne e uomini. Un paio di giorni fa, una brava collega, Amalia De Simone, ha iniziato così un suo post su Facebook: “Questa ragazza appassionata, chiara e competente che mette in riga tutti su informazione e ideologie è amica mia e sono felice di sostenere e partecipare ai suoi progetti. Signore e signori godetevi Arianna Ciccone”.
Vale la pena sottolineare che la Ciccone è la creatrice del importante sito di factchecking e approfondimento, “Valigia Blu”, nonché creatrice e direttrice del Festival Internazionale di Giornalismo di Perugia. A prescindere dal fatto che su Facebook si possono scrivere post in maniera meno formale che se fossero articoli, ho fatto notare alla collega che il suo pensiero sarebbe stato ugualmente – e forse meglio – comprensibile – se avesse scritto “Questa donna appassionata…”
A dire il vero, c’è un collega italiano, Mario Tedeschini Lalli, che da anni condivide la mia battaglia. A proposito di come tutti i media continuano a descrivere Santori, Tedeschini-Lalli ha scritto: “Vorrei solo che si smettesse con questo insopportabile “ragazzo”. È un uomo. Ha 32 anni”.
Tedeschini Lalli è consulente di Strategie digitali editoriali e partner del progetto Offshore Journalism Toolkit, e già Vicedirettore, direzione Innovazione e Sviluppo, Gruppo Editoriale L’Espresso, caporedattore Multimedia, Kataweb, Gruppo Espresso e docente di giornalismo digitale. Nelle “Linea guida per le notizie” preparate per Kataweb News nel 2003 e riproposte allo IFG di Urbino cinque anni dopo ha scritto:
“Attenzione all’uso improprio delle parole. In particolare “ragazzo”, “giovane”, ecc. Al bando la parola e il prefisso “baby” (come in “baby gang” dove, di solito, si intendono bande di sedici-diciassettenni, non di lattanti). In linea di massima sono “bambini” fino ai 10-11 anni, poi abbiamo “preadolescenti, ragazzini o ragazzi” (parola che va bene fino alle soglie della maggiore età, non dopo). Quindi “adolescenti o giovani”. Coi “giovani” potete insistere fino a metà della ventina, poi – almeno ai fini informativi su Kataweb – si diventa “uomo” o “donna”. Stop.”
Sia chiaro che insisto a combattere questo malcostume perché un uso sconsiderato delle parole genera confusione, basti pensare all’uso impreciso che negli ultimi tempi è stato fatto delle parole profugo o rifugiato, e migrante.
A proposito delle sardine e dell’uso inappropriato delle parole, Nadia Urbinati, Professor of Political Theory, Department of Political Science, Columbia University. Accademica, politologa e giornalista italiana naturalizzata statunitense, ha scritto il 22 novembre su La Repubblica, criticando l’uso del “tu”.
“A chi teme che si immetta il bacillo della politica ‘contro’, occorrerebbe far presente che quanti scendono in piazza in questi giorni, semmai, sono lì in reazione a questo bacillo che da anni ammorba la politica. Dunque non va tolta autorevolezza a chi li rappresenta in tv: basta con il ‘tu’.
Vi è un principio semplice alla base della democrazia: la quantità viene prima della parola e dà voce. Il Manifesto delle 6000 Sardine appena pubblicato e prima ancora l’imprevista loro emersione in Piazza Maggiore, a Bologna, dicono essenzialmente questo. E lo fanno con gentilezza ed eloquente chiarezza, senza aggredire. Una gentilezza che manca a molti conduttori e ospiti televisivi quanto si rivolgono a Mattia Santori, uno degli ideatori delle Sardine bolognesi, con il ‘tu’, come a volergli togliere autorevolezza”.
L’uso dispregiativo/diminutivo della parola “ragazzo” in Italia è lo stesso che si faceva negli Stati del Sud, negli States, con la parola “boy”, sino a pochi anni fa. Così i bianchi chiamavano i loro domestici e con quell’appellativo si rivolgevano a quasi tutti i neri per sottolineare il fatto che non sarebbero mai stati uguali o degni del rispetto di chi gli stava parlando. Oggi, tale uso non è più accettabile e viene considerato offensivo, quasi come l’uso della “N-word”.
Come ha scritto la consulente di comunicazione, Chiara Casablanca:
Comunicare è una responsabilità, qualunque sia il contesto.
Esiste un forte legame tra le nostre intenzioni, le parole che utilizziamo, i fatti che ne conseguono.
Se c’è coerenza, il processo comunicativo è armonico: il messaggio del mittente arriva forte e chiaro al destinatario, senza fraintendimenti, e ciascuno agisce nel modo più opportuno o secondo una serie di aspettative già calcolate. Al contrario, in presenza di incongruenze, ogni certezza è messa in discussione.
Per creare malintesi è sufficiente un’intenzione poco chiara, la scelta di parole inadatte, un gesto contraddittorio rispetto al proprio pensiero, a quanto manifestato a voce, o tramite scrittura.
Nessuno è immune da errori, intendiamoci, ma dobbiamo analizzare a fondo l’origine dell’incoerenza.
Un momento di confusione, una generale incapacità comunicativa, mera ingenuità o debolezza, sono motivazioni temporanee risolvibili.
(…) Ben diversa è l’incoerenza che deriva dalla volontà di confondere/ferire/ingannare l’interlocutore.
Intenti, parole e azioni sono spesso coordinati ad arte, con subdoli obiettivi.
“(…) L’uso appropriato delle parole”, ha scritto Gianfilippo Cuneo sul Sole 24Ore, “serve non solo a descrivere con una qualche precisione i fenomeni che vediamo intorno a noi, ma anche a determinare il nostro atteggiamento e modo di pensare.
Purtroppo in Italia si è diffuso un uso improprio delle parole; sembra che giornalisti, politici, partecipanti ai dibattiti televisivi, e persino le persone che discutono dei problemi di tutti i giorni non facciano più attenzione al significato delle parole e le scelgano a casaccio.
“Le parole servono a descrivere fatti o fenomeni, non sono pennellate di colore su un quadro astratto; una parola sbagliata o imprecisa può descrivere un fatto all’opposto di quello che è. La qualità e intensità del fatto, la sua tendenza, le sue implicazioni richiedono parole diverse. Una pioggia può essere di 1 cm o di un metro; però, nel secondo caso la parola da usare non è ‘pioggia’, ma ‘diluvio’.
L’uso improprio di parole è un peccato grave perché ingenera nel lettore o nell’ascoltatore un giudizio di maggiore o minore gravità, di tranquillità o di emergenza, di fiducia o di allarme. L’uso prolungato di parole sbagliate poi crea assuefazione o, ancor peggio, trasforma in verità o giusto qualcosa che è falso o sbagliato. Quando lo faceva Goebbels c’era dietro un disegno predeterminato; se invece uno lo fa inconsapevolmente forse può esser perdonato, ma non se è un giornalista che per mestiere dovrebbe stare attento a descrivere i fenomeni con parole che tengono conto della sostanza e che ha il potere di influenzare molte persone”.
In conclusione, per chi fa il mestiere del giornalista, la scelta delle parole dev’essere ponderata perché come sostiene Nanni Moretti, “le parole sono importanti”.