
E’ morto a Washington, a 74 anni, il giornalista Vittorio Zucconi, storico corrispondente de La Repubblica dagli Stati Uniti e firma di punta del giornalismo italiano. Aveva lavorato anche per Il Corriere della Sera e La Stampa, sempre come corrispondente, prima dagli USA, poi Bruxelles, Tokyo e Mosca ai tempi dell’Urss, infine il ritorno negli anni Ottanta negli Stati Uniti dove rimase con la sua famiglia ormai americana. Zucconi, anche direttore di Radio Capital e del sito web di Repubblica, è stato pure un prolifico autore di libri, soprattuto sugli Stati Uniti che raccontò come nei suoi articoli, con l’abilità dello scrittore che ti fa “vedere e toccare” i luoghi e i personaggi che descrive.
C’è un detto che tutti i giornalisti che hanno scelto il mestiere per passione, si ripetono a vicenda: “Il giornalismo é un mestiere duro, anche troppo, ma è pur sempre meglio che lavorare!”.
Vittorio Zucconi per chi scrive è stato l’emblema carismatico del significato di questa battuta. Infatti per lui, scrivere articoli sarà sì stato impegnativo e avvolte snervante, soprattutto quando si devono conciliare gli impegni familiari mentre si scrive per il giornale più diffuso d’Italia che ti chiama anche a notte fonda. Eppure bastava leggere i pezzi di Zucconi per intuire che scrivere per lui fosse come respirare: se resti un minuto di più in apnea, muori.
Ho avuto l’incredibile fortuna e onore di lavorare per quasi due anni, nel 2004-2006, con Vittorio Zucconi. Grazie all’aiuto dei colleghi Giampaolo Pioli e Anna Letizia Airos, e al supporto della Baronessa Mariuccia Zerilli Marimò e del giornale in cui lavoravo America Oggi, avevo fondato e diretto un settimanale in lingua inglese che si chiamava US-Italia Weekly (qui una pagina con uno degli articoli di Zucconi usitaliamay14p1.pmd). Un esperimento unico, facevamo scrivere gli italiani in inglese sull’America, e viceversa gli americani sull’Italia.

Vittorio Zucconi era uno dei miei più autorevoli “columnist” che scrivevano, ogni settimana, per US-Italia Weekly. Lui mandava i pezzi in italiano, e poi grazie alle traduzioni del geniale Michael Moore, ecco che l’incanto accadeva: l’inconfondibile stile di Zucconi trasmesso nella lingua inglese.
Furono settimane e settimane di grande crescita professionale per me, ma anche dal lato umano si trattò di una esperienza indimenticabile. Puntualmente, il sabato mattina, mentre al Prospect Park di Brooklyn, ero al bordo del campo per le partite dei miei figli ancora piccoli, Vittorio mi chiamava al cellulare e le prime sue parole erano sempre le stesse: “Direttore, allora che scrivo questa settimana?”. Ovviamente sapeva già benissimo di cosa avrebbe scritto, ma gli piaceva farmi sentire “importante”, a me che dai tempi del liceo avevo divorato le corrispondenze di Zucconi da qualunque parte del mondo si trovasse. Così mi emozionavo ogni volta che lo sentivo, con quel vocione e accento emiliano-milanese, esclamare: “Ci sono tre storie, ma ovviamente scegli tu, che sei il direttore, quale serve di più a US-Italia”. E io così stavo al gioco, tanto da come lui mi accennava le storie, capivo benissimo quella che lo appassionava di più. Quanti aneddoti riusciva a raccontarmi in pochi minuti sulla storia che aveva già scritta in testa, e io finivo la conversazione con: “Certo Vittorio, ecco fai quella, grazie”.

Avevo capito subito quanto Vittorio Zucconi fosse un uomo generoso quando nel 2004 venne da Washington alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University, per il lancio della prima copia di US-Italia Weekly. Il pubblico affollava il piccolo teatro della Casa soprattutto per ascoltare il famoso giornalista italiano. Lui, che appena mi conosceva, mi abbracciò come se lavorassimo insieme da anni, fece un intervento in cui, ringraziando la Baronessa Zerilli Marimò per il suo mecenatismo, riuscì a magnificare il giornalismo mettendoci pure dentro le idee di questo sconosciuto Vaccara di cui ancora non sapeva nulla, se non del fatto che era riuscito a convincerlo a partecipare praticamente gratis a scrivere per una testata sconosciuta.
Una volta avuto il sì di Zucconi, riuscimmo ad avere altre firme importanti del giornalismo italiano in America, come Alberto Pasolini Zanelli e Ennio Caretto. Tutti accanto sullo stesso giornale, le firme dagli USA dei maggiori corrispondenti del Corriere, La Repubblica e il Giornale. Tutti pubblicati in inglese!

Durò appena due anni quell’impresa, purtroppo stampare era troppo costoso e ancora l’internet non aveva mostrato le sue potenzialità per una pubblicazione del genere. Come al solito mancava la pubblicità necessaria. Eppure Zucconi, tutte le volte che mi incontrò, sorridendo mi chiamava “direttore” e con una pacca sulle spalle mi chiedeva quando riprendessimo a pubblicare.
Lo vidi l’ultimata volta alla conferenza stampa che l’allora premier Paolo Gentiloni ebbe con Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2017. Mi salutò come sempre con affetto. Alla fine di quell’incontro, lo incrociai nel piccolo parco fuori l’uscita. Era seduto su una panchina e non riusciva a collegarsi con internet. Gli dissi che avrebbe potuto usare il mio cell hot spot. Prima aveva scritto qualcosa. Ci mise 7, forse 8 minuti. Senza fermarsi mai, una mitragliata di parole che io, per metterle in fila ci avrei impiegato non meno di un’ora.
Non tutti hanno apprezzato il giornalismo di Zucconi. A prescindere dalle sue idee politiche, schiettamente per la sinistra, chi lo criticava lo accusava di essere troppo “immaginario”, più da scrittore che da cronista. Io credo che gli stessero facendo un grande complimento. Perché Zucconi puntava ad emozionare il lettore, sempre, e se non avesse sempre scritto quel qualcosa che non rientrava nella fredda cronaca, ma teneva il lettore incollato fino alla fine, lui sarebbe stato un giornalista come tanti. Invece lui è stato il grande Vittorio Zucconi. Già, anche Emile Zolà, Ernest Hemingway, furono dei giornalisti prima ancora di diventare grandissimi scrittori. Vittorio era semmai uno scrittore che però si sentiva troppo giornalista per lasciare la sua passione.
L’ultima volta che lo vidi, nel parco difronte alla Casa Bianca, mi chiese de La Voce di New York e mi salutò dicendomi: “Quando arrivi al 50% in inglese, chiamami”. Ci ho veramente sperato, ormai ci mancava poco, e magari avrei risentito quel vocione, tanto divertito quanto generoso, chiedermi: “Allora Direttore, di che scriviamo questa settimana?”