Il caso di Jamal Khashoggi ha fatto scoppiare il dibattito, ma la realtà è che la sua vicenda è tutt’altro che inusuale. Secondo l’ultimo report di CPJ, quest’anno sono stati 53 i giornalisti uccisi nel mondo. Reporters Without Borders ne ha contati invece 63, tra i membri professionisti della stampa. E non è tutto: negli ultimi 12 mesi, secondo quest’ultima organizzazione, 348 giornalisti sono stati imprigionati a causa del loro lavoro. Un trend preoccupante, a cui si sommano i continui attacchi del presidente Donald Trump ai media e ai loro operatori, etichettati come “nemici del popolo” e accusati genericamente di diffondere fake news.
In questo contesto tutt’altro che incoraggiante, abbiamo chiesto ai giovani giornalisti che hanno vinto la Reham Al-Farra Memorial Journalism Fellowship delle Nazioni Unite lo scorso autunno di raccontarci che cosa vuol dire fare questo mestiere nei propri Paesi d’origine (Paesi problematici in tema di libertà di stampa), e che cosa perseguire questa vocazione significa per loro. La fellowship è un programma di 3 settimane aperto a giovani dai 22 ai 35 anni che lavorano come reporter e che provengono da Paesi in via di sviluppo o con economie in transizione. Una grande opportunità per raccontare il mondo complesso ed entusiasmante del Palazzo di Vetro. Introdotta nel dicembre 1980 dalla risoluzione 35/201 dell’Assemblea Generale, la Reham Al-Farra Memorial Journalism Fellowship è stata vinta da 596 giornalisti provenienti da 168 Paesi. Qui di seguite le risposte delle tre giovani giornaliste che ci hanno risposto. Speriamo di poter aggiungere presto anche altri.
Che cosa ti ha spinto a scegliere la professione giornalista? A che età?
Julett Pineda – Caracas, Venezuela: “Non ho sempre saputo di voler diventare giornalista, ma da quando avevo 9 anni ero consapevole di voler scrivere. Ecco perché ho studiato Comunicazione di Massa e poi mi sono laureata in Giornalismo. Il mio essere curiosa rispetto alle storie delle persone e trovare la modalità di raccontarle sono le cose che mi hanno convinta a perseguire questa strada”.
Urvashi Sarkar – India: “Ho deciso di perseguire una carriera in giornalismo quando avevo 21 anni, quindi tra il 2007 e il 2008. Ero affascinata da come i giornali nel mio Paese stessero raccontando l’invasione dell’Iraq, la “guerra al terrorismo”, e la strage del Gujarat in India. Ho cominciato a vedere il giornalismo come un modo per contribuire, in certa misura, ai movimenti di giustizia sociale”.
Noelia Gutiérrez – Nicaragua: “Mi piace leggere da quando sono piccola, e alla fine ho iniziato a scrivere. Quindi, sono diventata una giornalista per fare della scrittura un modo di vivere. Inoltre, amavo raccontare storie. Penso che quando ho deciso di fare la giornalista non avevo ancora così tante ragione come ne ho ora per amare questa professione”.
La tua famiglia ti ha incoraggiato nei tuoi sforzi per perseguire il tuo sogno professionale?
Julett: “Per niente. Mio padre mi ha incoraggiata a lavorare nella pubblicità. Ho fatto alcune internship in agenzie pubblicitarie all’inizio, ma sentivo che era contro la mia natura. Mi sono iscritta al corso di laurea in Giornalismo e ho scoperto di aver fatto la scelta giusta quando per la prima volta ho scritto un articolo e ho preso il voto più alto della classe”.
Urvashi: “I miei genitori temevano che salari bassi, orari imprevedibili, viaggi frenetici non fossero adatti ad una donna. Erano anche preoccupati che non mi sarei sposata. Chi avrebbe sposato una donna che fa un lavoro del genere?, si chiedevano. Comunque, non hanno mai cercato di dissuadermi o di rendermi le cose più difficili”.
Noelia: “Non mi hanno mai incoraggiata ma nemmeno fermata. Mio padre voleva fare il giornalista da giovane, e quindi era felice della mia scelta di studiare Comunicazione Sociale. Mia mamma, d’altronde, era preoccupata perché pensava sarebbe stato difficile per me trovare lavoro (anche considerando che volevo scrivere e esistono solo due giornali in Nicaragua), e anche perché lo stipendio sarebbe stato molto basso (aveva ragione!). E all’epoca in cui ho preso la mia decisione, nel 2010, non ho dovuto considerare il fattore violenza”.
Quale è stato il momento più difficile o la decisione più delicata che hai preso nella tua carriera?
Julett: “Il momento più duro è stato il 19 aprile 2017. Ero nella parte ovest di Caracas, un ex territorio chavista. Stavo coprendo una manifestazione dell’opposizione durante la crisi politica venezuelana. Stavo scattando foto e realizzando interviste quando un gruppo paramilitare ha cominciato a sparare e ha lanciato bombe a gas lacrimogeno. Un ragazzo che era a pochi passi da me è caduto al suolo. Sanguinava ed era totalmente indifeso, anche se aveva ancora i segni vitali. L’ho seguito in ospedale, dove un manifestante lo ha portato. Ho aspettato con la sua famiglia fuori dalla sala del pronto soccorso. È morto dopo l’operazione”.
Urvashi: “Penso che la decisione più delicata sia stata quella di fare la giornalista freelance. È stata la scelta più difficile e più importante. Ha significato prendere una posizione di principio per evitare conflitti di interesse – e quindi non accettare o non applicare per posizioni ben pagate che avrebbero avuto un impatto negativo sulla mia indipendenza. È stato difficile dire di no al denaro, ma per me era più importante salvaguardare la mia indipendenza come giornalista. Per fortuna, ho potuto contare sul supporto della mia famiglia per fare questa scelta”.
Noelia: “Penso la decisione che ho appena preso. Ho deciso di dimettermi dal mio precedente lavoro perché non avevo più possibilità di scrivere in maniera critica e approfondita”.
Quali misure ritieni che l’ONU dovrebbe adottare per migliorare lo stato della libertà di espressione e di stampa nel mondo?
Julett: “Non sono molto ottimista su che cosa le Nazioni Unite possano fare, visto che il più delle volte gli Stati membri preferirebbero solo ignorare quello che la comunità internazionale ha da dire. Comunque, penso che l’ONU possa battere sulla questione e avere una posizione più ferma in merito. Forse, attraverso delle campagne d’opinione, le popolazioni capiranno quanto sono importanti i giornalisti per mantenere democrazie salutari”.
Urvashi: “Iniziare conversazioni con i governi sulla libertà di stampa e chiederne conto”.
Noelia: “Penso che le Nazioni Unite potrebbero fare più pressione sui governi perché si impegnino a garantire la libertà di stampa. In Nicaragua, ora, anche con tutte le dichiarazioni rilasciate dalle Nazioni Unite sull’argomento, il governo non ha intenzione di rispettare i giornalisti e i media che esprimono posizioni critiche e pubblicano tutti i report sulle violazioni di diritti umani commesse dalle autorità”.
Quali sono i principali ostacoli che i giornalisti e la stampa devono affrontare nel tuo Paese?
Julett: “Censura, minacce, aggressioni, furti, salari bassi, mancanza di informazioni ufficiali, finanziamenti e la paura che la gente ha di parlare”,
Urvashi: “Molti: fake news, troll, salari bassi, budget inadeguati per fare giornalismo. E un’ondata di sentimenti anti-media”.
Noelia: “Da aprile di quest’anno, a causa della crisi sociale che il Nicaragua sta attraversando, le minacce alla libertà di stampa sono aumentate. Molti giornalisti sono stati feriti o picchiati mentre raccontavano le proteste, ad altri sono state rubate le telecamere, i registratori e gli smartphone. Addirittura, un giornalista, il 21 aprile, è stato ucciso nella città costiera di Bluefield mentre copriva le proteste contro le riforme al sistema di sicurezza sociale. Il suo nome era Angel Gahona, e i suoi parenti e i testimoni del crimine accusano la polizia, che stava reprimendo le proteste, di avergli sparato. C’è anche molta preoccupazione riguardo alla censura che ha riguardato molti media, specialmente televisivi, a cui è stato impedito di andare in onda e trasmettere le proteste. La Società Interamericana della Stampa ha dichiarato che la libertà di stampa in Nicaragua sta facendo passi indietro. Come se non bastasse, c’è un preoccupante problema di trasparenza e accesso alle informazioni pubbliche. Nessun ministro nel Paese fornisce informazioni, documenti o statistiche sulla propria amministrazione se un cittadino lo richiede, nonostante l’esistenza di una legge sull’accesso alla informazione pubblica in Nicaragua”.

Dopo la tua esperienza a New York, c’è qualcosa che invidi ai tuoi colleghi che lavorano qui, e qualcosa che non ti piace?
Julett: “Penso che i giornalisti (e le persone in generale) diano per scontate le democrazie in cui vivono e pensino che uno scenario tanto ostile e complesso nei confronti della stampa non si realizzerà mai. Mentre svolgevo il mio lavoro alle Nazioni Unite, invidiavo il fatto che per i miei colleghi fosse davvero facile ottenere informazioni ufficiali dalle istituzioni del loro Paese, e che persino i primi ministri o i presidenti fossero disposti a rilasciare interviste. I rappresentanti politici nel mio Passe non hanno mai risposto a una mia domanda durante le conferenze stampa informali, e non mi aspettavo un trattamento diverso a New York”.
Urvashi: “Se intendi cosa penso dei miei colleghi che lavorano nella città di New York, è naturalmente una città per certi versi affascinante. Penso che ci vive e lavora lì abbia accesso a tante opportunità in più. Eppure, l’intero sistema si trova sotto la pressione di un sentimento anti-immigrati a cui l’America è sempre più soggetta, con Donald Trump presidente. Quello che non mi piace è che la città è veloce e competitiva, e a volte questo può intimidire. Per quanto riguarda le Nazioni Unite, sembrano una incredibile organizzazione in cui lavorare e crescere. Essere al centro della politica internazionale è estremamente eccitante. Ho anche sentito dei generosi benefit concessi allo staff e penso all’opportunità di imparare le lingue! D’altra parte, è qualcosa di talmente enorme che ci si può sentire persi”.
Noelia: “Penso che, a causa della mancanza di trasparenza nell’informazione pubblica nel mio Paese, sia esattamente questo che “invidio” di più delle condizioni in cui lavorano i corrispondenti all’Onu. Le Nazioni Unite sembrano molto aperte a condividere le informazioni, ad organizzare conferenze stampa e soprattutto a non bloccare il lavoro dei giornalisti, anche quando questi ultimi fanno domande scomode. Quello che invece non mi piace è che molte volte si ha libero accesso alle dichiarazioni dei diplomatici e agli ufficiali ONU, molto meno alle storie umane, personali. Questo ti porta a raccontare le decisioni che prende chi è al potere, ma non si arriva a conoscere quelle persone che, in effetti, subiscono gli effetti di quelle decisioni”.
Le notizie relative a giornalisti uccisi addirittura in territori diplomatici (come nel caso di Jamal Khashoggi) ti hanno in qualche modo scoraggiato dal perseguire la carriera giornalistica? Che ne pensi?
Julett: “Le notizie su Jamal Khashoggi sono terribili, come quelle relative alla morte di giornalisti in altri contesti. Ma anziché spaventarmi, finiscono per incoraggiarmi ad alzare la voce ancora più forte. I potenti non possono far scomparire la verità uccidendo i reporter”.
Urvashi: “Sì, in generale sono a conoscenza dei tanti casi di giornalisti uccisi in diversi Paesi, incluso il mio. Naturalmente il pensiero che puoi rischiare la morte semplicemente perché fai il tuo mestiere è spaventoso. Ma non mi scoraggia”.
Noelia: “No, per nulla. Per ora, sono convinta di voler continuare a fare giornalismo e a scrivere”.