Se un criminale ti puntasse una pistola alla testa e realizzassi che stai per morire, a cosa penseresti? Me lo chiedo mentre sono su un treno che mi porta da Milano alla casa dei miei, in Veneto.
Se in questo momento salisse nel vagone un terrorista, mi puntasse un coltello alla base del collo, la paura mi lascerebbe respiro? Non penserei al futuro che non avrò, agli occhi di mio figlio che non vedrò mai, alle persone a cui voglio bene a cui non potrò più dirlo. Non penso. Forse mi passerebbe la vita davanti, rivedrei i momenti più felici. Molto probabilmente non mi renderei invece conto di nulla, con i pensieri congelati in un momento che tende all’eterno. Di una cosa però sono certa. Sono sicura che penserei che mi dispiace. Mi dispiace per tutte le cose che vorrei raccontare e che invece non racconterò.
Antonio Megalizzi i giornali l’hanno descritto come un bravo ragazzo con il sogno del giornalismo e la trovo una descrizione indegna. E sì che un giornalista lo dovrebbe sapere che giornalisti si nasce. Che te la senti dentro quella foga che ti porta in giro per il mondo a raccontare, eremita delle notizie, della realtà da osservare da vicino.
E non esiste foga di serie B. Stava cercando la sua strada, in modo creativo, era uno della mia tribù, di quelli che ti annusi e ti riconosci. L’anno scorso avevo postato qui un annuncio di lavoro per la casa di produzione video di Amsterdam. Antonio mi aveva scritto. Mi chiedeva che lavoro fosse e se in Olanda mi trovassi bene. Gli avevo risposto di sì. Voleva mandarci la sua candidatura. Gli avevo risposto a monosillabi, forse scocciata che mi stesse chiedendo un parere personale. Gli avevo detto ‘Se vuoi candidarti fallo prima di domani alle 12 che poi partono i test’. Gli avevo mandato uno smile con una faccina che ride. Lo smile voleva dire ‘Credici, che qua puoi diventare quello che vuoi. Continua a marciare nel mondo con la testa alta che i buoni e i bravi sembra perdano fino all’ultima scena dei film western. Ma alla fine il cattivo perde sempre. E se in Italia non va tu non ti fermare.’
Oggi leggo che aveva dichiarato: ‘Sono del 1989. Mi sento europeo, poi italiano e infine trentino. Ho viaggiato per tutta l’Europa, vissuto in tre o quattro stati come se mi fossi spostato dal Friuli al Lazio, senza che cambiasse praticamente nulla a livello burocratico… Io le voglio difendere queste libertà. Voglio farmi portavoce delle fortune che ho vissuto.’
Oggi leggo che l’Ordine dei giornalisti gli conferirà un tesserino postumo. E mi fa ridere, riconoscere un talento solo quando finisce in prima pagina, ma non per quel talento che proprio l’Ordine dovrebbe scoprire, tutelare e proteggere.
C’è una generazione di giovani giornalisti disillusi e per questo più tenaci che non ha paura di nulla, sanno solo di avere una missione ben chiara in testa, e se il sogno di fare il corrispondente estero è impalpabile come zucchero a velo sul pandoro, sanno anche che nulla è più dolce di una carriera che ti costruisci da solo, sulle tue gambe, fino in fondo.
A me Antonio avvolge la tristezza della tua voce spezzata. Non importano i riconoscimenti non dati, le redazioni grosse non varcate. Quelle cose lasciale a chi ha fame di potere. Importano le cose che volevi raccontare, i tuoi ideali. Importa il coraggio, quello di girare anche da solo, anche quando sai che il mondo è malato. Lo metti in conto, magari ci scherzi, quando magari pensi che rimanere coinvolto in un attentato senza feriti potrebbe non essere poi così male: almeno avresti una storia da prima pagina da raccontare.
(Mi unisco al dolore della famiglia e degli amici e chiedo scusa per aver scritto di Antonio senza conoscerlo personalmente. In genere non lo faccio mai. Ma non è giusto morire senza aver visto il riconoscimento dei propri sogni. Specie quando nessuno ti dà la possibilità di realizzarli).