Una vera e propria tempesta mediatica. Se ne parla poco in Italia – in questi giorni alle prese con il legittimo dolore e le meschine polemiche politiche del dopo-Genova -, ma quello che sta avvenendo negli Stati Uniti non ha precedenti nella storia del Paese. La situazione – complessa, che vale la pena analizzare per gradi – riguarda, in sintesi, il controverso e paradossale rapporto tra il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il mondo dell’informazione.
Un rapporto che ha dato origine a un cortocircuito fin dalla comparsa del magnate newyorkese sulla scena politica. Quel candidato che nessuno si sarebbe mai aspettato di vedere alla Casa Bianca, attaccato dalla gran parte dei media e che i media ha sempre attaccato, è stato portato alla ribalta proprio da chi, ogni giorno, metteva in luce le sue gaffe e, per usare un eufemismo, le sue uscite “politicamente scorrette” su donne, minoranze, avversari politici e chi più ne ha più ne metta. Un paradosso mediatico che continua anche oggi, in effetti, nella vera e propria guerra in corso tra il Presidente e una buona parte del panorama mediatico a stelle e strisce.
Andiamo con ordine. Dopo i continui attacchi di Trump ai media, da lui costantemente accusati di diffondere fake news e delegittimati nel loro ruolo di guardiani del potere, diverse testate americane hanno studiato una contromossa senza precedenti: unirsi, per difendere la libertà di informazione. La campagna è stata lanciata dal Boston Globe, che, con un editoriale di Marjorie Pritchard, ha fatto appello ai colleghi giornalisti di tutto il Paese, spronandoli ad affrontare uniti le critiche del Presidente. Da allora, più di 350 giornali americani hanno sposato la causa iniziata a Boston, che in poco tempo ha conquistato adesioni dalla Georgia, al Nebraska, fino all’Oregon.
Hundreds of editorial boards around the country are joining with @GlobeOpinion to defend the #FreePress. Here’s why: https://t.co/pXHa55uELM pic.twitter.com/nPwtIYrEi4
— The Boston Globe (@BostonGlobe) August 15, 2018
Il senso dell’iniziativa è quello di difendere il necessario lavoro dei giornalisti, che è, o dovrebbe essere, indipendente, libero, e protetto dal Primo Emendamento della Costituzione americana. Ma attenzione: sicuri che questo “fronte comune” sortirà l’effetto per il quale è stato organizzato? Non tutti ne sembrano convinti. Secondo Jack Shafer di Politico, la campagna “fornirà a Trump prove circostanziate dell’esistenza di una cricca di media nazionali che si sono organizzati esclusivamente per opporsi a lui”. Il San Francisco Chronicle, che pure non ha mai risparmiato critiche ai dardi presidenziali lanciati alla stampa, ha deciso di non unirsi all’iniziativa, sollevando la questione dell’indipendenza della testata e dei singoli giornalisti che, a prescindere dalla linea del comitato editoriale, esprimono le loro opinioni. La testata si è anche domandata se questo fronte comune non finisca per avallare la narrazione trumpiana di una stampa a una voce schierata contro di lui.
Dubbi legittimi, in effetti. Perché, se come afferma il Washington Post, quando si tratta di parlare di Trump i giornalisti non sono “in guerra (at war), ma al lavoro (at work)”, è pur vero che la legittima iniziativa tesa a difendere la credibilità della stampa può facilmente essere ribaltata dal Commander-in-Chief a proprio favore. Partendo, peraltro, dal presupposto che Donald Trump è stato forse il candidato, ed è oggi il Presidente, meno sostenuto dai media nella storia americana. In questa sede non è importante discuterne le cause (a ognuno la propria valutazione); è importante, piuttosto, metterne in rilievo il risultato: la narrazione – diffusa anche in Italia – del Presidente anti-establishment attaccato da cricche di potere rappresentate dalla stampa mainstream è servita su un piatto d’argento.
Lo stesso dicasi per l’autentica sovraesposizione mediatica del Presidente, al centro di un uragano di notizie che riguardano scandali, rivelazioni, inchieste, troll russi e quant’altro. L’ultima bomba, le registrazioni rilasciate da Omarosa Manigault Newman, ex assistente nel programma The Apprentice, nonché responsabile dell’Ufficio delle relazioni pubbliche della Casa Bianca fino allo scorso gennaio, quando fu licenziata dal capo di Gabinetto John Kelly. La Newman ha anche scritto un infuocato libro-verità sul suo anno infernale alla Casa Bianca di Trump. In uno degli audio incriminati, si sentirebbe Trump utilizzare termini razzisti.
Qualche domanda doverosa. Che cosa questa vicenda può cambiare dell’immagine che il Presidente si è costruito in questi anni? Nulla. Quanto gli può alienare le simpatie dei suoi elettori? Poco: l’impressione è che, in buona parte, chi lo ha votato e sostenuto fin da principio lo abbia fatto anche, se non soprattutto, per tali comportamenti “politicamente scorretti”, percepiti però come autentici, per questo continuo parlare alla pancia, per lo sdoganamento di ciò che “tutti pensano ma nessuno dice” e per la tendenza a strizzare l’occhio ai segmenti più intolleranti del Paese. E chi mai l’ha sostenuto, da questo ennesimo episodio riceverà un’ulteriore conferma, non necessaria, a supporto di quello che già pensava. Quanto a Trump, i suoi strateghi della comunicazione hanno risposto all’attacco con un video – comunque la si pensi – piuttosto efficace:
L’effetto complessivo della vicenda, ancora una volta, rischia paradossalmente di giovare alla causa del Presidente, e per varie ragioni. Innanzitutto, perché questo ciclo continuo di news su di lui comincia a suscitare, negli americani, ulteriore disaffezione rispetto al mondo dell’informazione in generale. Lo conferma un recente report del Pew Research Center, secondo cui 7 americani su 10, soprattutto Repubblicani, si sentono praticamente nauseati di fronte a questa incredibile quantità di news sul Presidente. In proposito, l’ottimo Stef W. Kight ha efficacemente ribattezzato questo fenomeno “Trump news cycle”, ed ha analizzando i dati di Google News Lab’s per quanto riguarda la prima metà del 2018. Il risultato? La quantità di informazioni prodotte sul Commander-in-Chief è semplicemente impressionante.
Non solo: come si diceva prima, tutto questo polverone rischia di avallare l’immagine, costantemente rilanciata da Trump, di una stampa compatta in massa contro il Presidente “scomodo”, “uno-contro tutti”. Trump la vittima, i media i carnefici.
Così, in questa guerra combattuta senza esclusione di colpi tra il Presidente e la stampa, una guerra iniziata ben prima che il controverso miliardario approdasse alla Casa Bianca, il cortocircuito perfetto è servito. E a giovarne potrebbe essere, ancora una volta, Donald Trump.