“Sì, va bene te la concedo, se parliamo del Paese e non del mio caso”. E’ questa la premessa dell’ex direttore del quotidiano Il Mattino Alessandro Barbano, quando lo chiamo per chiedergli un’intervista a pochi giorni dalla scelta dell’editore del giornale di cambiarne la direzione, facendo assumere l’incarico a Federico Monga. Un cambio di direzione tanto repentino quanto sospetto, al punto da avere alimentato chiacchiere sui reali motivi di quella decisione che hanno aleggiato tra gli addetti ai lavori e non solo: qualcuno ne ha scritto come di una scelta dettata dal fatto che Barbano non abbia voluto acconsentire ad avere una linea più morbida nei confronti di questa strana creatura, metà Lega salviniana metà figlia di un comico e dei suoi meet up, che oggi governa l’Italia. Ipotesi non confermata, stando alle parole di Barbano, che accetta l’intervista immediatamente. L’appuntamento è telefonico e dura più di quanto ci si aspetti da chi in fondo sulla vicenda ha poco o nulla da dire. Ma chi sa leggere non solo le colonne di un giornale, ma soprattutto tra le righe del suo ex direttore, ci trova molto più di quanto c’è scritto. L’accento di Barbano non è napoletano (il direttore è pugliese di Lecce) e questo aveva fatto storcere il naso a qualcuno sei anni fa, con l’arrivo di un “messaggeriano” al vertice di Via Chiatamone. Ma Barbano ha saputo farsi apprezzare e, pochi giorni prima di lasciare, ha omaggiato, con con un premio letterario a lei intitolato, la fondatrice Matilde Serao, citata anche nel suo ultimo editoriale di saluto ai lettori.

L’intervista la fissiamo alle 8 e mezza di sera, “Tanto sarò in macchina, di ritorno da una presentazione del mio libro, possiamo parlare quanto vuoi”, con il tono a cui noi giornalisti siamo abituati, ossia di chi non ha pause, non ha momenti di non-lavoro, non si riposa mai insomma, come se davvero la notizia fosse sempre dietro l’angolo, e guai a non vederla per aver un attimo chiuso gli occhi per la stanchezza.
Il tuo ultimo messaggio ai lettori del giornale che hai diretto per sei anni, Il Mattino, termina con un augurio. Al tuo successore scrivi: “Gli auguro di avere coraggio”. Coraggio per cosa?
“Il coraggio è una virtù del giornalismo, significa rispondere alla propria coscienza con capacità di analisi e auto analisi, sfidando il vero potere forte del nostro tempo, che è il senso comune. E’ un augurio che ho rivolto al mio collega, che è bravo, che è stato il mio vice, ed è un collega più giovane. Oltre a fargli i complimenti mi sono sentito in dovere di augurargli di avere “forza morale”, soprattutto in un momento in cui si è imposto nel Paese, dopo 20 anni di retorica e demagogia populiste, un senso comune che è un conformismo diffuso, che racconta l’Italia peggio di quanto non sia e che ha mortificato e umiliato tutte le forme della democrazia, disintegrandola in nome di una democrazia perfetta, diretta, orizzontale, ma in realtà impossibile e totalitaria, in cui alla fine pochi governano sui molti. Questa demagogia ha smontato pezzo per pezzo le forme della democrazia rappresentativa, ignorando che questa ha proprio nel compromesso e nell’élite la sua essenza. Quindi, il mio augurio è di avere il coraggio di testimoniare il valore della democrazia contro chi la vuole mettere sotto i tacchi, sostituendola con una forma plebiscitaria che somiglia ad una autocrazia”.
Smorzo il tenore dell’intervista cambiando lo scenario: le parole di Barbano sono tutte ben pensate e pesate, alcune richiamano quel famoso addio come se fosse una specie di canovaccio. Allora inizio a parlare di Napoli, che scioglie sempre, soprattutto chi di Napoli non è figlio e Barbano non fa eccezione…
Sei anni a Napoli: qual è il tuo rapporto con la città?

“È stato, anzi è un rapporto di un’intensità e di una densità straordinarie: Napoli è meravigliosa, io la amo profondamente e amo anche le sue parti meno convenzionali. Intendo dire che non amo il suo tratto folcloristico raccontato per stereotipi, ma la sua sostanza. Napoli è anzitutto una città seria, ha una grande virtù civile e una forza morale, ha una borghesia operosa e ha tanta creatività intellettuale. Poi ha anche molte malattie, contraddizioni e punti di emergenza sociale. Ha un deficit amministrativo che la perseguita da decenni come effetto di un divorzio tra i migliori napoletani e la politica. Che è un po’ la malattia di tutto il Sud. In ogni caso Napoli resta speciale. Il mio rapporto con questa città è stato vissuto nell’esempio di Matilde Serao, fondatrice de Il Mattino, che a Napoli non faceva sconti, la raccontava con distacco che si deve al miglior giornalismo ma anche con rispetto e amore per la sua gente”.

Nel tuo addio, e anche rispondendo alla prima domanda, hai parlato di una dialettica che fa apparire l’Italia peggiore di quella che è, e di una babele di parole irrilevanti a cui la politica è ridotta: ti avevano chiesto di essere più morbido con il nuovo governo? Cosa hai risposto?
“Nessuno mi ha mai chiesto nulla, anche perché negli anni di direzione de Il Mattino mi sono sempre avvalso della mia autonomia. Tanto è vero che ho scritto con autonomia fino all’ultimo giorno. Cosa è successo? Non mi interessa discuterne perché non penso di essere una vittima e, da liberale, rispetto la libertà del mio editore, che ho ringraziato per la fiducia accordatami in sei anni, di scegliersi i direttori che ritiene. Ho fatto il direttore in libertà perché credo che un direttore abbia il diritto-dovere di essere autonomo. Per questo ho agito sempre senza sentirmi limitato. Quanto al motivo per cui l’editore ha scelto un cambio di direzione, chiedetelo a lui. Per quanto mi riguarda ne ho preso atto e altro non m’interessa”.
Ok, nessun retroscena da gossip giornalistico-politico. Ma hai mai avuto sentori di quello che stava per accadere?

“No. Tanto è vero che pochi giorni prima ho organizzato al teatro San Carlo il secondo premio letterario Matilde Serao, assegnato alla scrittrice iraniana Azar Nafisi, esule negli Stati Uniti. Non immaginavo di interrompere in maniera così repentina, ma ne ho preso atto e rispetto la decisione presa”.
È legittima la scelta di un editore che deve fare il bene del suo giornale. Ma il giornale, lo hai scritto tu, va protetto come un bene prezioso. Qual è oggi il bene de Il Mattino?
“Il Mattino è come tutti i giornali patrimonio di una comunità. Il Mattino lo è in modo speciale, perché è un giornale che definirei unico. Non è solo un giornale di popolo, e neanche al contrario il giornale di un élite. È un giornale di tutti. La sua penetrazione non ha eguali in Italia. È monopolistico nella sua realtà territoriale. Ed è stato fondato da una donna altrettanto speciale, che rappresenta uno dei migliori esempi di giornalismo civile della nostra storia. Ha avuto da subito una grande caratura intellettuale già nel Primo Novecento, tanti grandissimi scrittori e poeti vi hanno scritto e continuano a scrivervi, da Giosuè Carducci fino a Giuseppe Montesano. È un giornale dove tutta l’intellighenzia del Mezzogiorno si esprime, considerandolo una piazza di idee. E soprattutto, è l’ultimo giornale in grado di parlare del Mezzogiorno al Paese. Per il suo radicamento e per queste sue peculiarità il Mattino è un patrimonio di comunità da 130 anni: in questo senso non è degli editori, dei direttori o dei giornalisti. Appartiene a tutti. È una fiamma che tanti di noi, con ruoli diversi, hanno avuto il privilegio e l’onere di tenere accesa per un certo periodo. Questa responsabilità deve informare chiunque si trovi a decidere de Il Mattino e per Il Mattino”.
In questa ottica come leggi il trasferimento di sede al Centro Direzionale di Napoli?
“Credo di averti risposto. È una scelta aziendale che rispetto ma che non mi compete”.
Ora che ne sei fuori…
“Io non sono fuori. Io resto un direttore del Mattino anche quando ho cessato il mio incarico, perché lo sono stato.
Ma…
“Non c’è nessun “ma”. Io questa responsabilità l’ho sentita. Capisco che possa essere insufficiente per la tua curiosità. Sei stata più penetrante di altri con le tue domande, e ti ho detto cose relative al coraggio che non avevo detto, ma questo è quanto…”
In effetti Barbano ha la capacità di chi sa il suo mestiere. Di chi può dire tutto senza aver detto nulla.
Ti sto intervistando per un giornale americano in lingua italiana, e la volontà di questa intervista nasce anche forse da un dubbio, chiamiamolo così, ossia se la tua vicenda debba preoccupare sul corso della politica italiana.
“Penso che… (qui la pausa è più lunga, tanto che devo sincerarmi che non sia caduta la linea) la mia vicenda sia una vicenda di mercato, che non ha cioè una valenza politica diretta. Ritengo tuttavia che in questo momento nel Paese si sia imposto un senso comune nella lettura dei fenomeni che somiglia a un conformismo e che ha messo in crisi e mortificato la democrazia italiana. E penso che sia giusto rimettere in moto una pedagogia civile per impegnarsi a ricostruirla. Ma lo stesso problema c’è in America, dove si è imposta una lettura semplificata e semplificatrice della realtà, e dove c’è altrettanto bisogno di pensiero critico, perché anche lì le forme della democrazia sono state messe a dura prova”.
Sei di ritorno da una presentazione del tuo ultimo libro (Troppi Diritti – L’italia Tradita dalla Libertà): come hai raccontato il tuo libro oggi, dopo quello che è successo a te?
“Il mio libro l’ho scritto prima del voto del 4 marzo, ma racconta di quell’analfabetismo istituzionale e di quell’incapacità di trovare sintesi che si è espressa nelle urne. A quel voto, insieme chiaro nella volontà di protesta ma contraddittorio nelle soluzioni, è seguito il contratto senza alleanza che governa l’Italia: è una sorta di patto della sfiducia, perché il contratto senza alleanza è una istituto di diritto privato tra soggetti che diffidano l’uno dall’altro. Perché questo contratto determini un governo di legislatura occorre che si trasformi in un’alleanza che persegua quel contratto. Ecco perché una nuova pedagogia civile oggi è utile tanto alla società quanto a chi la rappresenta, dalla maggioranza e dall’opposizione. Bisogna tornare a investire sulla democrazia rappresentativa che, per quanto imperfetta, resta, come diceva Churchill “la migliore forma di governo”.
Tutto chiaro, tutto chiarito dunque. Eppure… Eppure quelle voci di un motivo ben più grande di una semplice scelta editoriale e di mercato non sono solo di corridoio, eppure, tre firme autorevoli di quell’intellighenzia di cui parla anche Barbano (Biagio De Giovanni, Paolo Macry e Aldo Masullo) sentono il dovere di dire la loro, con una lettera al nuovo direttore che decide però di non pubblicarla. Iniziando, così, con una censura:
In un quadro politico che cambia confusamente e che accredita linguaggi semplificati, programmi fantasiosi e perfino oscure identità geopolitiche, abbiamo appreso increduli del licenziamento di Alessandro Barbano dalla direzione del Mattino, scrivono, il suo allontanamento ci sembra segnalare una pericolosa tendenza a seguire, talvolta pedissequamente, il carro della politica di Palazzo. Ma riteniamo non meno gravi le reazioni a un atto così repentino, ufficialmente immotivato, in qualche misura drammatico. Le reazioni, infatti, non ci sono state. Non una parola è stata spesa da parte della stampa nazionale e perfino della stampa locale. Non una parola è venuta da una solitamente combattiva Fnsi, dall’Ordine dei Giornalisti o dalle istituzioni politiche, continua la missiva. Non è per una corriva acquiescenza al retroscenismo che denunciamo le due notizie: il licenziamento e il silenzio. Esse avvengono nei giorni stessi in cui cambia il quadro governativo e sembra dilagare una lettura manichea del Paese e del mondo che sarebbe errato giudicare semplicemente ingenua.
Biagio De Giovanni, Paolo Macry e Aldo Masullo
Insomma, loro parlano chiaro, loro qualche accusa la fanno. Ci si chiede, dunque, se è tutto così normale, perché allora si sente il dovere di farsi delle domande, perché si sente il dovere di parlare di un silenzio che fa troppo rumore? Perché, ancora, in quegli storici corridoi di Via Chiatamone che ancora solo per una manciata di mesi ospiteranno quel bene prezioso che è il Mattino, le versioni sono tutt’altro che politicamente corrette? Perché? Perché qualcuno dice che Barbano non ha voluto piegarsi, che ha deciso di essere autonomo fino in fondo. Perché? Non saremmo giornalisti se ci accontentassimo delle risposte ufficiali. Non saremmo bravi osservatori se non cercassimo al di là di ciò che vede l’occhio umano, al di là di quel senso comune deteriorante di cui parla Barbano. Il Mattino cambia il suo direttore in un giorno, cambierà la sua sede storica in una manciata di mesi. La domanda è: perché? Solo per scelte di mercato o davvero bisogna preoccuparsi di qualcosa che non vediamo, di quella domanda da cui nasce questo pezzo: la vicenda Barbano deve preoccupare sul corso della politica italiana? A queste domande sarà il tempo e quella strana coppia di Governo a dare, forse, una risposta.