Il presidente (ormai a vita e assoluto) Recep Tayyip Erdogan rovescia il motto di Pierre de Coubertin: a lui di “partecipare” non importa nulla, per lui “l’importante è vincere, non importa se 5-0 o 1-0”. Coerente con questo assunto “governa” con pugno d’acciaio la Turchia, e giorno dopo giorno, costruito un sistema di potere personale. Dopo il cosiddetto golpe (e molti dubbi si possono legittimamente avanzare: non è infondato il sospetto che si sia trattato di un “auto-finto-golpe”), ha licenziato i magistrati scomodi, i professori non ubbidienti; migliaia di poliziotti e militari ritenuti non affidabili sono stati incarcerati; ha chiuso giornali, messo il bavaglio ai giornalisti dell’opposizione. Ha elaborato e presentato una riforma costituzionale grazie alla quale accentra tutti i poteri militari e civili, vanifica quelli della magistratura e della Corte costituzionale. La sua connotazione e vocazione autoritaria e nazionalista non ha più freno; anche in politica estera le scelte e le iniziative sono a dir poco discutibili. In una parola: la storia e il “sogno” della rivoluzione laica di Mustafa Kemal Ataturk, fondatore e primo presidente della Turchia moderna sono da considerare definitivamente liquidati.

Un quadro a tinte fosche, quello in cui si è celebrato il referendum costituzionale; un clima autorizzava previsioni le più pessimistiche: poco o nessuno spazio per le opposizioni, il prevalere dell’arroganza e della brutalità del potere. Scoraggiamento, rassegnazione e scetticismo dell’opinione pubblica.
E’ andata diversamente. I turchi, e in particolare i giovani e gli elettori delle grandi città, pur con le mani legate, sono comunque riusciti a dare un sonoro ceffone ad Erdogan. Non solo: l’OSCE, agenzia internazionale indipendente a cui aderisce anche la Turchia, rileva e denuncia numerose illegalità che hanno condizionato il voto e consentito brogli.
Il voto della Turchia è importante per i riflessi che inevitabilmente è destinato ad avere nel più generale contesto internazionale; ed ha una pregnanza politica ed ideale: ci dice in sostanza che la battaglia per la democrazia non è persa. Ma deve anche farci riflettere: il tema della libertà, in Turchia, ma un po’ ovunque nel mondo, è strettamente correlato con quello del personalismo: se non adeguatamente contrastato, inevitabilmente degenera e scivola nell’autoritarismo, nel dispotismo.
Una conferma dei rischi, dei pericoli che si corrono è, appunto, quello che accade in Turchia. Il caso di Gabriele Del Grande, per citarne uno.

Gabriele è un blogger, documentarista; da giorni è bloccato in un commissariato turco nella provincia dell’Hatay, una regione sudorientale del paese non lontano dal confine con la Siria. Da oltre dieci anni, attraverso il suo blog “Fortress Europe” racconta i drammi di chi fugge dalle guerre e cerca di raggiungere l’Europa. Nel 2013, da quando l’Italia è diventata paese di transito per migliaia di siriani diretti verso il Nord Europa, con alcuni amici decide di seguire un gruppo di profughi; si inventano un ipotetico corteo nuziale immaginando che così nessuno li avrebbe fermati. Da quel “viaggio” è nato un avvincente film, “Io Sto con la Sposa”, proiettato in decine di paesi.
Da mesi Del Grande è impegnato in un nuovo progetto per la preparazione di un libro: “Un Partigiano mi disse”. Una produzione che lo ha portato in Grecia, Irak e nelle ultime settimane in Turchia: “La guerra in Siria e la nascita dell’ISIS raccontate attraverso l’epica della gente comune in un intreccio di geopolitica e storytelling”, si può leggere nel sito in cui espone il suo nuovo progetto. Proprio in Turchia, dove si concentrano oltre due milioni di profughi siriani, tra i quali Gabriele è andato a cercare spunti per arricchire la sua narrazione, il viaggio si è improvvisamente interrotto. Non è ben chiaro quale sia il pretesto per “giustificare” il fermo di Del Grande.
Gabriele ha potuto comunicare, telefonicamente con la famiglia in Italia. Fa sapere di aver intrapreso uno sciopero della fame. Assicura di essere in discrete condizioni di salute, e tuttavia è costretto a fare i conti con una realtà che non dà alcuna garanzia di democraticità e di protezione per detenuti e imputati. Lo prova quanto ha potuto dire al telefono, circondato da agenti: sono violati i suoi diritti elementari, a partire dal diritto a un avvocato, ed è trattenuto in un centro di detenzione amministrativa senza sapere quali siano le accuse a suo carico.
Di Gabriele, in quanto cittadino italiano, si sa qualcosa; e in suo favore qualcosa si muove, a cominciare dalle autorità di governo. E prima o poi verrà espulso con foglio di via e divieto di poter tornare in Turchia. Ma è da credere che nel silenzio, e nella letterale ignoranza di quanto accade, ben di peggio, di più grave, accada a tantissimi giornalisti, blogger e scrittori turchi. Erdogan non da ora dimostra astio e intolleranza nei confronti dei giornalisti e delle voci libere e indipendenti; per citare casi clamorosi: da oltre due mesi il turco-tedesco Deniz Yücel, corrispondente per “Die Welt”; e Ozkan Mayda, giornalista sportivo, da quasi dieci mesi è in carcere senza che gli sia stato contestato alcun reato. C’è poi il caso di Nazli Ilicak, giornalista veterana ed ex parlamentare: a 73 anni è costretta in una cella in attesa di un processo dove sarà giudicata per favoreggiamento di quella che è ritenuta l’organizzazione terroristica guidata da Fethullah Gulen, l’irriducibile avversario politico di Erdogan, che vive in esilio negli Stati Uniti. Al momento, nelle galere di Istanbul, in attesa di processo, ci sono oltre 155 tra cronisti, blogger e altri operatori dell’informazione.