Addio marinaio! “Dei remi facemmo ali al folle volo”, il racconto del navigatore Ulisse nel XXIV canto dell’Inferno di Dante, come epicedio di Piero Ottone, potrebbe andar bene. Magari sostituendo “vele” alla parola remi. Infatti lo storico nocchiero del Secolo XIX e del Corriere della Sera, nell’età dell’oro della carta stampata non era rematore (neppure in senso figurato) ma piuttosto velista.
Come giornalista e come direttore Ottone navigava a vela con pochissime carte e pochi strumenti. Si affidava al vento ma soprattutto dell’istinto del reporter-esploratore che “va a vedere” e non ha paura di sporcarsi le mani e consumare le suole delle scarpe. Genovese come nascita ma in realtà cittadino del mondo, n’è andato come aveva sempre voluto, nel sonno e senza funerali né illusioni di un Aldilà nel quale non credeva, dall’alto dei suoi ironici 92 anni, davanti alla punta rocciosa di Camogli affacciata sul golfo del Tigullio.
I Romani dicevano che dei morti si deve parlare solo bene, ma in realtà la frase “de mortuis nil nisi bonum” era tradotta dal greco. Ton tethnikóta me kakologéin, avvertiva 600 anni prima di Cristo Chione, uno dei Sette Saggi dell’antica Grecia. Ottone in ogni caso agli ipocriti buonismi di maniera non dava retta. Li disprezzava anzi, e ai suoi cronisti ripeteva sempre: “vai a vedere, controlla e riferisci. Ma attenzione: i commenti sono liberi, ma i fatti sono sacri”.
Che cosa posso raccontare di Ottone come uomo? Incominciamo dalla fine. L’ultima volta che l’ho visto, a casa sua, di ritorno da un viaggio in Uganda con mia moglie, che essendo cresciuta sotto il comunismo in Romania detesta tutti gli “ismi” – dal fascismo al comunismo e dal fanatismo religioso al populismo – abbiamo parlato di politica. C’erano anche la moglie di Ottone Hanne, di origine danese, e la figlia maggiore Bettina, che ignara della storia contemporanea chiedeva lumi al padre, anche se poi non si curava troppo di starlo a sentire.
Come mai, chiedeva, se c’era la Resistenza di cui ogni anno in Italia il 25 aprile si celebra il trionfo, prima della guerra invece in Italia c’erano così tanti fascisti e poi dopo la guerra tanti comunisti? “La verità – fu la risposta politicamente scorretta del genitore – era che nel 1936 dopo la guerra vinta in Abissinia – gli oppositori del fascismo si contavano sulle dita di una mano. E non, come ora si racconta, per la spietata repressione del regime. C’era un enorme consenso popolare. Mussolini non solo in Italia, ma perfino in Inghilterra e negli Stati Uniti, era acclamato come un genio e un grande statista. Poi venne la guerra mondiale e il regime, dopo le prime sconfitte, crollò.
Tutti fascisti o quasi prima, e poi tutti – o quasi tutti – antifascisti. Insomma, come dicono gli inglesi, “fair weather friends”.
Passiamo al passato più vicino. A Ottone direttore del Corriere fu rimproverato un supposto “sinistrismo” rivolto a traghettare il PCI verso il governo. Ci furono, anche sotto la mitizzata direzione Ottone, accanto agli indiscutibili successi anche alcuni vasti errori e sbandamenti. Per esempio, quando durante la cosiddetta “rivoluzione dei garofani” i comunisti in Portogallo aggredirono a sprangate i socialisti devastando la sede del giornale A República, il Corriere con un blitz del comitato di redazione dominato dal PCI cambiò il titolo nottetempo, da “I comunisti occupano il giornale socialista” a “Tensione a Lisbona fra PC e socialisti”.
Il direttore, data l’ora, dormiva a casa sua e a nessuno passò per la mente che bisognava svegliarlo. A fare le spese della vergognosa mistificazione fu il vicedirettore Franco DiBella, un aziendalista rispettato e competente ma tutt’altro che filocomunista, poi divenuto direttore del Corriere dopo Ottone, e in seguito costretto a dimettersi perché iscritto alla loggia massonica P2, oscuramente sospettata di ordire un colpo di Stato per sventare una pretesa “minaccia comunista”.
Così avvenne che DiBella, per fare gli interessi dell’azienda, accettò di cambiare il titolo di prima pagina (ma non il contenuto) sotto la minaccia di uno sciopero. L’episodio fu da me vissuto in prima persona in quanto temporaneamente “esiliato” da corrispondente da Londra a semplice scrivano tuttofare a Milano, perché venendo dalla BBC, dove avevo lavorato con regolare contratto quattro anni, il comitato di redazione di me non si fidava, e con ragione: infatti non ero né cattocomunista né marxista. La scuola giornalistica di Londra, con tutti i suoi difetti, su questo non transige. I commenti sono liberi, ma i fatti sono sacri.
In questo, devo dire, dopo un periodo di iniziale diffidenza, con Piero Ottone che era cresciuto giornalisticamente quasi nella stessa scuola, ci trovammo in sintonia. Il suo atteggiamento nel raccontare i fatti e poi spiegarli, era libero dagli schemi ideologici che affliggono l’Italia, e non l’Italia soltanto. Per fortuna sua e mia, inoltre, il mondo mistificatore della post-verità non ci aveva contagiati. Ottone era un pragmatico. In Italia il cattolicesimo esiste, sia pure con diffusi opportunismi e vaste ipocrisie. Ma al tempo stesso esiste – anzi esisteva, perché quel tempo è ormai morto e sepolto – anche una realtà molto importante chiamata partito comunista. Il PCI non dimentichiamo, quando lui era direttore del Corriere, era il più forte partito comunista del mondo occidentale. Era questa perciò la realtà con cui bisognava aprire un confronto.
Così ebbe inizio quella che possiamo chiamare la rivoluzione ottoniana. Il Corriere della Sera di Ottone, che era un giornale affidabile ma ingessato, dove era vietato per esempio usare la parola “membro” e si ricorreva a frasi sgangherate come “il primo ministro Margaret Thatcher è andata a Mosca per il funerale di Chernenko” (che facevano pensare a un errore di stampa, o magari a un capo di governo travestito da donna) incominciò ad adeguarsi ai tempi. Ma oltre al linguaggio, che doveva rispecchiare la lingua parlata ma senza gli anglicismi idioti oggi di uso corrente – tipo “implementare la spending review del ministero del welfare” e sciocchezze simili – quello che Ottone voleva cambiare e rinnovare erano soprattutto i contenuti.
E in cinque anni, in buona parte, Ottone ci riuscì. Il giornale, per esempio, per la prima volta, mise in prima pagina l’iconoclasta Pier Paolo Pasolini. “Veramente il merito – o demerito che sia – non è mio ma di Gaspare Barbiellini Amidei, il mio condirettore” si schermì Ottone. “Lui lo ha consigliato e io mi sono fidato: l’articolo l’ho letto per la prima volta sul giornale”. Anche con gli altri redattori il direttore Ottone faceva così. Proponeva magari un’idea o la accettava, ma non censurava. Solo una volta, leggendo un elzeviro dell’allora ambasciatore a Londra Roberto Ducci, dove si raccontava senza perifrasi delle attività erotiche stile Monica Lewinsky di un giovane letterato italiano con la figlia di Benedetto Croce, mentre il filosofo sonnecchiava nella sua casa di Napoli, Ottone mi chiamò a Londra dicendo: “guarda, dovresti chiedere a Ducci di togliere questa frase un po’ cruda… sai, ci possono essere lettori che non gradiranno”. E io: “Ma perché non glielo dici tu? È anche tuo amico”. Risposta: “No, sei tu il corrispondente da Londra. La telefonata fagliela tu”.
L’ambasciatore Ducci prevedibilmente andò su tutte le furie. Rispose che lui non tagliava nulla e che, se proprio la redazione letteraria era così bacchettona, i tagli se li facesse da sola. Così alla fine successe che qualcuno tagliò una frase di troppo, per cui nell’elzeviro sparì anche il nome di Croce e si accennava solo alla figlia di un innominato filosofo intenta ad allietare eroticamente i pomeriggi del giovane letterato, mentre il padre dormiva in poltrona.
Con i politici, compresi i comunisti, con gli allora onnipotenti e oggi semi-irrilevanti sindacati, con i poteri cosiddetti forti ma che tali poi non sono, con le classi emarginate, per la prima volta i rapporti del Corriere, sotto la direzione di Ottone da antagonistici che erano divennero improntati al dibattito, in un clima di rispetto reciproco. Gli incontentabili, s’intende, si lamentarono dicendo che il Corriere della Sera non aveva più linea politica, senza capire che l’idea del giornale indipendente era quella di dare spazio a opinioni diverse, e non di dirigere un coro.
Oggi, è incontestabile, il clima nell’informazione è diverso, anzi è in crisi profonda. Ma che significa poi crisi? Crisi ovvero krisis in greco significa “scelta”, “decisione”. E dunque è una opportunità. Con l’avvento di Internet una nuova rivoluzione, più radicale ancora di quella di Gutenberg, è appena incominciata e indietro non si torna. La carta stampata, è vero, è quasi archeologia, e l’obiettivo di “fare audience” a ogni costo, perfino attraverso la provocazione e la disinformazione, prevale su ogni altro criterio.
Ma questa è solo la fase iniziale di un processo molto lungo, perché l’esigenza umana di informarsi e capire è universale. In un modo o nell’altro, alla fine, la ragione trionferà. Queste, per inciso, sono le considerazioni di un giovane intelletto di 92 anni, che senza avere il conforto della fede, fino all’ultimo istante della sua vita, ha avuto l’audacia di guardare al futuro. Comandante Ottone, ahoy! Avanti tutta. Terra in vista.
Renzo Cianfanelli, storico inviato di guerra del Corriere della Sera, è il corrispondente dal Palazzo di Vetro dell’ONU per Il Secolo XIX.