Nei giorni scorsi si è vibratamente discusso del ministro Marianna Madia; della sua tesi di dottorato, scritta nel 2008; del mancato uso delle virgolette per una parte dell’elaborato. Quanti hanno preso le difese del Ministro, e fra questi il Prof. Pietro Petrini, Direttore dell’IMT (la scuola postuniversitaria in cui Madia aveva compiuto il dottorato), hanno fatto osservare che, nella bibliografia, erano state indicate le opere da cui erano state tratte le citazioni; e che, il mancato uso delle virgolette, non impediva di riconoscere la parti allogene dello scritto. Aggiungeva ancora che, al tempo della tesi, “…non c’erano software antiplagio e nemmeno questa ossessione per le citazioni”; e, richiesto se intendesse avviare un’inchiesta amministrativa sulla questione, negava risolutamente, concludendo lapidario: “Le inchieste si aprono quando uno trucca i dati, non perché mancano quattro parentesi”.
Difesa spicciativa; e non del tutto persuasiva. Nella parte in cui riferisce dell’assenza di “software antiplagio”, addirittura grottesca; quasi che la questione di principio sia dipesa dall’algoritmo impietoso, e non da una opaca vigilanza di chi ha scritto e di chi ha approvato. Pare riecheggiare qui il canone etico “a varianza ponderale”, che già fu caro a Roberto Saviano: col suo, “solo lo 0,9%”, di pagine copiate. Se sbaglio poco, non è uno sbaglio. In termini teorici, per non dire di principio, è un’amenità.
Ma su un punto, il Prof. Petrini ha avuto ragione. Pur con simili contorcimenti, si è opposto alla lapidazione.
La quale, come sempre accade, imponendo l’alterativa tutto/niente, impedisce una critica ragionata; ed anche la possibilità di soluzioni congrue. Le dimissioni non lo sono in assoluto; ma se il Ministro non avesse osservato un minimalismo contegnoso, un twittino e via, avrebbe reso sensate, e non ottriate, le pur esistenti alternative; una spiegazione doviziosa, con voce propria, magari accompagnata dal riconoscimento di avere in effetti compiuto una scelta infelice, o ingenua, avrebbe riscosso simpatie; e se non approvazione, certo maggiore comprensione di quella fin qui suscitata. Questa sarebbe stata forse condotta principesca; e da una povera Ministra, in effetti, è un pò troppo pretendere: nonostante certa allure rinascimentale.
Ma c’è stato il crucifige. Che ha finito col favorire e, indirettamente, persino col sostenere quel parco, quasi striminzito tweet: “Per trasparenza, ecco la mia tesi di dottorato http://bit.ly/2nqTpjq. Nessuna anomalia. Valuteranno i giudici il danno che ho subito oggi”.
Ora, il crucifige, è sempre sommario e, perciò, sempre infondato. In ogni caso, presupporrebbe, in chi lo agita, una distanza siderale, se non da ogni errore, almeno dallo specifico errore altrui.
Fra i crocifissori del Ministro Madia, insieme a Libertà&Giustizia, si è distinto il Fatto Quotidiano. E non poteva: meno che meno in materia di uso ed abuso delle virgolette.
Un paio di mesi fa, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ha dichiarato inammissibile, perché “manifestamente infondato”, un ricorso proposto dal suo Direttore, Marco Travaglio. Essendo stato condannato per diffamazione, aveva lamentato “l’ingerenza” dello Stato Italiano, sul suo diritto alla libera critica e, in genere, alla manifestazione del pensiero.
Si trattava di un caso, già famoso, che brevemente riassumo. In un articolo del 2002, intitolato “Patto scellerato tra Mafia e Forza Italia”, Travaglio aveva sostenuto che, nello studio dell’Avv. Taormina, allora difensore di Marcello Dell’Utri e del Ten. Col. Riccio (accusati di concorso eventuale in associazione mafiosa), Dell’Utri avrebbe cercato di convincere il Colonnello a modificare una sua precedente dichiarazione: resa, nel 1998, alla Procura di Firenze. In quella dichiarazione, a verbale, il militare affermava che una fonte confidenziale gli avrebbe parlato di Dell’Utri: proprio come colui che, per la parte politica, avrebbe partecipato al “Patto scellerato”. Ma Travaglio aggiungeva nell’articolo che, nello studio dell’Avvocato Taormina (il quale, a sua volta, ha sempre negato che si fosse parlato di simili accordi; né, in effetti, constano a suo carico rilevi giudiziari in proposito) era presente anche l’Avvocato Previti; e poneva le virgolette ad una frase del verbale del 1998: “in quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’Avvocato Taormina, era presente anche Previti”.
Previti querelava Travaglio per diffamazione. Ed ecco il punto: perché la frase posta tra virgolette era monca; essendo questa, invece, quella completa: “In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’Avvocato Taormina, era presente anche Previti. Il Previti era però convenuto per altri motivi legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria del Dell’Utri”. Il Tribunale condannava Travaglio, per la diffamazione, ad otto mesi di reclusione con la sospensione condizionale: in quanto riteneva il virgolettato infedele, “indubbiamente insinuante”, stigmatizzando il comportamento come “confezionamento dell’articolo”; la Corte d’Appello confermava la condanna, ma, pur ritenendo la sentenza del Tribunale “ottimamente motivata” e tale da essere “confermata nel merito”, sostituiva la pena reclusiva con 1000 Euro di multa. Nel 2014, la Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso, e la condanna diventava definitiva.
La vicenda, benché vecchia, però toccava il metodo professionale del giornalista; che, infatti, conduceva la questione fino alla Sede Europea. La CEDU può vantare una giurisprudenza molto attenta alle libertà individuali; e il delitto di diffamazione, in quanto incrimina l’uso di parole, è considerato con speciale attenzione. Se c’è qualcosa che non va, in genere, a Strasburgo la trovano.
Però, richiesta di intervenire da Travaglio, la Corte, nemmeno due mesi fa, chiariva: “…benché la stampa giochi un ruolo essenziale in una società democratica, e abbia il dovere di comunicare informazioni e idee su qualsiasi questione di interesse pubblico, i giornalisti sono comunque soggetti a obblighi e responsabilità”; e, poiché l’omissione del Nostro aveva ingenerato nel lettore un’impressione “essenzialmente fuorviante”, e non aveva offerto “informazioni accurate e affidabili”, si riteneva la sua condanna, ad opera dei giudici italiani, in nessun modo lesiva dei diritti invocati. Anche considerando che, alla fine, era stata inflitta solo una multa per un importo “modesto”; come pure modesto era stato il risarcimento dei danni imposto (20.000 Euro), dato il fatto. Per cui, come detto, cestinava il ricorso.
Obblighi e responsabilità. Informazioni accurate e affidabili. Essenzialmente fuorviante. Parole grosse.
Le virgolette del Ministro e il “confezionamento” travagliesco. Un bel tacer non fu mai scritto.