In questi giorni i social network si affollano di novelli Charlie, disegni di matite come Torri gemelle, vignette d’inchiostro macchiate di sangue, professioni di solidarietà al giornale satirico recentemente colpito da un angosciante attentato. Tutto giusto, molto toccante, colpita al cuore la satira, roccaforte della nostra libertà d’espressione, ci sentiamo oggi tutti Charlie. Peccato che nessuno meno degli italiani possa dirsi tale.
Al di là del fatto, appena ricordato nei dettagli da Marco Travaglio a Servizio Pubblico, che la situazione della satira in Italia è quella della censura da almeno trent’anni, è la libertà d’informazione tutta a vivere sotto assedio nel nostro Paese. Solo che se gli assalitori non portano passamontagna e kalashnikov nessuno pare riconoscerli come tali. Quelli che imbavagliano la stampa da noi si chiamano politici, hanno vestiti di marca e scarpe laccate, hanno qualcosa di più potente di una pistola: il potere di decidere cosa si possa o non si possa dire, scrivere, diffondere e soprattutto il potere di farlo senza che nessuno s’indigni.
Mentre eravamo impegnati a cercare la rappresentazione più originale della vicenda da diffondere in rete sotto l’hashtag #jesuisCharlie, in Italia si censurava il web in nome del diritto all’oblio. Così, se qualcuno, compresi malviventi di ogni speme, pensa che un suo reato commesso in passato debba sparire dalla memoria del web e da quella collettiva, può chiedere la cancellazione immediata della notizia al sito d’informazione che la riporta. Non possiamo dire che l’hashtag #Meglioilcarcere, dedicato alla protesta contro il disegno di legge 925b, oggetto di discussione alla Camera in questi giorni e già approvata al Senato, abbia ricevuto lo stesso seguito. Se non siamo Charlie è proprio grazie a questo assenteismo italico tutto volto a manifestare le proprie idee sui social, anziché facendo sentire la propria voce in qualunque modo influisca sul decorso di una legge che dovremmo almeno aver mal digerito, piuttosto che completamente ignorato. Il disegno di legge in questione, con la scusa di eliminare il carcere dalle pene previste per i reati a mezzo stampa, impone multe discutibili, che hanno l’unico reale effetto di mettere a tacere i freelance e lasciare indisturbati i grandi gruppi editoriali. La pena prevista in caso di reato di diffamazione è stata ridimensionata a una multa di 10.000 euro, se si riscontra che l’atto è stato commesso in buona fede. Già qui dovrebbe aprirsi un mare di discussioni difficile da navigare, ma che almeno testimonierebbe la presa in analisi della faccenda. Una delle possibili domande riguarda inevitabilmente l’applicazione della pena a un soggetto che lo stesso giudice ritiene aver agito in buona fede.
Se la legge ha scopo deterrente e non punitivo, che senso ha imporre una multa a qualcuno che ha diffamato non sapendo di farlo? In che modo potrà tale esempio di punibilità inibire qualcun altro dal diffamare senza saperlo? Il punto allora è proprio la presunta buona fede che, una volta accertata, non si capisce come possa essere punibile. La situazione si complica se viene riconosciuta la cattiva fede di chi scrive: non più il carcere come il terzo mondo e va bene, ma l’alternativa di questa legge sarebbe un bel multone da 50.000 euro, insignificante per i grandi gruppi editoriali, spada di Damocle per i giornalisti indipendenti. L’unico effetto che possiamo prefigurarci è quello per cui nessun freelance si prenderà più la briga di scrivere una riga sul malaffare, lasciando alle grandi testate libero sfogo su ogni argomento. Le notizie più scottanti sarebbero ben lungi dall’essere divulgate, qualora ad averle in possesso sia una piccola testata e non un grande gruppo, magari appoggiato dal potere politico in contrasto con quello oggetto di scandalo.
Un altro punto piuttosto inquietante del sopracitato disegno di legge riguarda l’obbligatorietà di pubblicare la risposta del presunto diffamato, senza alcuna possibilità di replica da parte del giornalista o del suo direttore. Se qualcuno si sente diffamato potrà scriverlo a corredo della notizia e il giornale sarà costretto a pubblicare la smentita, senza poter ribadire di avere sufficienti prove a suffragio di ciò che aveva affermato. In questo modo il lettore non saprà mai a chi credere fino alla fine di un processo che si concluderà solo quando della notizia non si avrà più memoria.
Dal monitoraggio della libertà d’espressione nel mondo emerge che l’Italia è piazzata al quarantanovesimo posto, subito dopo il Niger, ma la cosa agghiacciante è che gli italiani non ne hanno alcuna percezione, al punto da permettersi di definirsi Charlie. Che nel nostro Paese sia stato licenziato più di qualcuno per una vignetta satirica non sembra fatto sufficiente a distoglierci dall’autodefinirci un Paese libero. A nessuno è venuto in mente di prendere in considerazione i fatti di Parigi per chiedersi come stavamo messi quaggiù. No, niente, siamo tutti Charlie comodamente seduti sul divano di casa, caricatura di un popolo che, a differenza nostra, la libertà d’esprimersi a 360 gradi se l’è conquistata col sangue e con la storia.
C’è un’altra ragione per la quale allo stato attuale nessun italiano può definirsi neanche l’unghia del piede di Charlie: per nessuna ragione un Paese multiculturale come la Francia accetterebbe che il nome di Charlie Hebdo venisse usato come muro divisore tra il “noi” occidentali e il “loro” musulmani, attentatori, cattivoni, problema da eradicare. Non siete Charlie, perché non è con voi che ce l’hanno gli estremisti. Non è con l’intolleranza, la chiusura, la miopia dell’antislamismo che se la sono presa, anzi, direi che su quello avete solo da andare d’accordo. I fondamentalisti ce l’avevano invece con la libertà di criticare tutti, cattolici, musulmani, confuciani e chi più ne ha più ne metta, la possibilità di farsi scherno di ogni confessione, esattamente all’opposto del ridicolo polarismo del noi/loro. Charlie non era solo i suoi disegnatori, morti per aver disegnato delle vignette che per quanto irriverenti e forse offensive rientravano nel libero esercizio del diritto di critica, della libertà di espressione. Charlie era anche Ahmed Merabet, il poliziotto musulmano morto per difendere il diritto di prendersi scherno anche del suo credo. Charlie è il giovane Lassana Bathily, musulmano anche lui, che ha salvato 15 ostaggi dell’attentato al supermercato parigino chiudendoli in una cella frigorifera, previo disinnesto del programma di raffreddamento. Charlie non sarà mai il nome dell’intolleranza, della chiusura, del fanatismo oltranzista che vuole due blocchi contrapposti di uomini, di qua gli occidentali evoluti, di là gli islamici trogloditi. Gli estremisti non hanno ucciso Charlie Hebdo, lo uccidono ogni giorno quelli che lo strumentalizzano in favore della xenofobia, ciechi nel non vedere quanto la loro bile li renda simili a quelle armi impugnate in nome di Allah.