Se Kyiv piange, Mosca non ride. Alla vigilia del lugubre traguardo dei 18 mesi di guerra – e da tempo tramontata l’illusione della blitzkrieg sognata dal Cremlino – i costi del conflitto si fanno sempre più duri.
Non è solo una questione di costi umani (stime indipendenti riportano circa 50.000 morti russi, 20.000 ucraini, e più di 9.000 civili), ma di più letterali bilanci economici. A testimoniarlo è il recente intervento della Banca centrale russa, che martedì ha aumentato i tassi d’interesse dall’8,5% al 12% per difendere un rublo da settimane in caduta libera.
Per l’istituto centrale moscovita guidato da Elvira Nabiullina si tratta del secondo rialzo dallo scoppio della guerra, dopo il maxi-incremento del 20% del benchmark rate deciso il 28 febbraio 2022. Ora come allora, la mossa è servita scongiurare che il rublo divenisse carta straccia, dopo essere arrivato a valere meno di un centesimo di dollaro.
Lunedì lo scambio RUB-USD è infatti sceso sotto la soglia fisiologica di 0,01 (0,0098), salvo assestarsi a 0,0102 a fine giornata – che rappresenta comunque una perdita di valore di circa il 30% dall’inizio dell’anno.

A pesare sul deprezzamento della valuta russa, secondo gli economisti, è una serie di fattori che comprendono anzitutto il calo delle esportazioni dovuto all’embargo occidentale e il parallelo aumento delle importazioni, oltre all’impennata della spesa pubblica per sostenere il peso economico-sociale dell’aggressione (anche sotto forma di mutui agevolati e contributi alle famiglie dei soldati impegnati al fronte).
Un fattore, quest’ultimo, non espressamente menzionato nella dichiarazione di sintesi della riunione di emergenza della Banca centrale, la quale ha piuttosto preferito la definizione tecnica di “crescita della domanda interna”.
Di per sé, un rublo debole non è però necessariamente una cattiva notizia per Mosca. Dopotutto dalla Russia partono soprattutto petrolio e gas naturale, il cui prezzo è in prevalenza espresso in dollari – nonostante i tentativi di Putin e Xi di affrancarsi dal soft power statunitense preferendo rubli, euro o renminbi. Dall’inizio dell’anno, inoltre, il prezzo del greggio Urals è aumentato di oltre il 50%. La quota di export si è insomma ridotta ma è divenuta relativamente più redditizia, compensando in parte l’aumento dell’importazione e il price cap imposto dall’Occidente.
Ad inquietare i sogni del Cremlino è invece lo spettro dell’inflazione, conseguenza fisiologica del deprezzamento valutario – oltreché di elevati tassi di credito al consumo, carenza di manodopera e disavanzo pubblico. Per quest’anno la Banca centrale ha previsto un tasso d’inflazione compreso tra il 5 e il 6,5%, mentre i dati ufficiali pubblicati la scorsa settimana mostrano un’accelerazione annuale del 4,3% nel mese di luglio.
Certo, si è ben lontani dalla situazione-limite dei primi anni ’90, quando il repentino passaggio dallo statalismo sovietico al libero mercato fece schizzare i prezzi del 2500%. Ma il Cremlino è ben consapevole che anche un lieve aumento del carovita può arrivare là dove nemmeno gli orrori della guerra sono riusciti nel mobilitare la popolazione russa contro i suoi leader.
Una considerazione tutt’altro che banale, dato che il prossimo 17 marzo più di 100 milioni di cittadini russi saranno chiamati a scegliere il nuovo – o riconfermare il vecchio – presidente.

Un’inflazione in crescita non è certo un buon biglietto da visita nei confronti dell’elettorato, a prescindere da quello che sarà verosimilmente un ennesimo plebiscito per il 71enne Putin. E così c’è chi si azzarda fino a vaticinare un braccio di ferro tra i politici del Cremlino e i tecnici della Banca centrale.
Una potenziale avvisaglia è arrivata già negli scorsi giorni. La forma è quella di un editoriale, quello scritto dal consigliere economico di Putin, Maxim Oreshkin, sul sito web dell’agenzia di stampa TASS. “La principale causa dell’indebolimento del rublo e dell’accelerazione dell’inflazione è una politica monetaria troppo morbida”, ha scritto Oreshkin, secondo cui “la banca centrale ha tutti gli strumenti per normalizzare la situazione nel prossimo futuro”.
Toni assai meno diplomatici hanno contraddistinto invece le filippiche di Vladimir Solovyov, celebre conduttore televisivo nonché amico del capo di Stato. In un intervento in diretta, Oreshkin ha attaccato “la maledetta Banca Centrale, che ha allarmato l’intero Paese e non spiega nemmeno perché diavolo il tasso di cambio del rublo sia balzato così in alto, tanto che all’estero ridono di noi (e) del nostro rublo che è una delle tre valute più deboli”.
Intanto l’agognato intervento sul tasso di riferimento è finalmente arrivato, ma è tutt’altro che una panacea. D’altronde anche la macroeconomia segue a suo modo il terzo principio della dinamica: agendo contro l’inflazione, a volte infatti si finisce per agire a favore della recessione. Senza dimenticare che i tassi di interesse nel prendere in prestito denaro dalla Banca centrale diventano più alti per tutti, anche per il Governo chiamato a finanziare la campagna bellica.
Finora Nabiullina è stata unanimemente elogiata per aver saputo attenuare gli effetti della tempesta perfetta successiva all’invasione del 24 febbraio – tra costi diretti della guerra e sanzioni occidentali, oltre al maxi-congelamento di circa 300 miliardi di dollari di riserve valutarie russe detenute all’estero. Un compito assolto a pieni voti dalla levigata economista baschira, che ha consentito al PIL russo di crescere del 4,9% nel secondo trimestre del 2023 (dopo il -2,1% del 2022).
Ora però, ad attenderla c’è forse una sfida ancora più difficile: quella di non diventare capro espiatorio della politica.
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