Dicembre è tradizionalmente tempo di bilanci, e se esistesse un premio per la valuta più volatile dell’anno, questo verrebbe vinto a mani basse dalla lira turca. La moneta nazionale di Ankara è infatti passata, nel giro di una manciata di ore, dal valore più basso degli ultimi quarant’anni (18,29 per 1 USD, dato del 20 dicembre) a quello più alto dell’ultimo mese (11,62 per 1 USD del 21 dicembre).
Tutto merito del presidente Recep Tayyip Erdoğan, che lo scorso lunedì ha annunciato le nuove misure drastiche dell’esecutivo per far fronte al progressivo tracollo della lira: i titolari di conti correnti denominati in lire saranno protetti dagli effetti della svalutazione grazie alla garanzia pubblica del Tesoro, che indennizzerà i correntisti con l’eventuale differenza nel tasso di cambio tra lira e dollaro/euro. In pratica, ogni qualvolta la svalutazione della lira eccederà il tasso di interesse offerto dalle banche nazionali, Ankara aprirà l’ombrello pubblico per tutelare i depositi in lire.
Una misura che, almeno nelle ore immediatamente successive alla presentazione, ha clamorosamente invertito il trend di indebolimento della lira, portandola ad un rimbalzo da record. La volatilità della valuta è proseguita anche martedì, oscillando nella forbice di scambio 11,62-14,09, concludendo quindi la giornata a 12,4 per 1 USD. Appena più stabile si è rivelata la giornata di mercoledì, dove i mutamenti sono stati contenuti nella forbice 12,02-12,72.
Nonostante il rialzo di fine anno, però, il 2021 rimane un annus horribilis per la lira, il cui valore si è praticamente dimezzato dallo scorso gennaio. A inizio anno un dollaro veniva scambiato con 7,43 lire, mentre oggi serve quasi il doppio.
Nel crollo verticale c’è ancora una volta lo zampino di Erdoğan. Il leader turco ha infatti ripetutamente ignorato i pericoli di svalutazione continuando imperterrito ad abbassare il tasso d’interesse a cui la Banca centrale presta denaro alle banche. Il suo proposito è di favorire l’export, investimenti e l’aumento dei posti di lavoro. Tuttavia, almeno finora, l’abbondanza di denaro ha avuto la conseguenza economicamente elementare di far precipitare il suo valore.
Una politica monetaria su cui Erdoğan non ha voluto sentire ragioni nemmeno se provenienti dai suoi più stretti consiglieri economici. Negli ultimi due anni e mezzo, la Turchia ha infatti cambiato tre governatori di banche centrali e due ministri delle Finanze (quello attuale, Nureddin Nebati, è in carica dal 2 dicembre).
La risalita della lira non è però una soluzione di lungo periodo. Alcuni esperti avvertono che la garanzia statale pone almeno due ordini di problemi. Il primo è di natura sociale: è vero che formalmente l’ombrello pubblico previene l’odiato aumento dei tassi d’interesse, ma di fatto scarica i costi della crisi su tutti i contribuenti turchi, e non più solo sui correntisti che hanno un conto denominato in lire (ricchi o meno).
In secondo luogo, la misura mette benzina sul fuoco dell’altro parametro che inquieta i sonni della Banca centrale: l’inflazione. Favorito dall’abbondanza di liquidità, il tasso d’inflazione annuale è, al 21,3%, il più alto dell’ultimo triennio. Si appresta quindi a raggiungere il 50% nella prima metà del 2022. La garanzia statale significa altra spesa pubblica, il che potrebbe far impennare ulteriormente il dato percentuale. E rendere la vita dei turchi ancora più difficile.