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La Superlega è morta? La Superlega è viva. Evviva la Superlega

Per quale motivo sarebbe un male esportare il meglio del nostro prodotto sportivo in altri continenti? Non fanno gli americani lo stesso con l’NBA?

Alessandro MartinabyAlessandro Martina
La Superlega è morta? La Superlega è viva. Evviva la Superlega

Le squadre che avrebbero composto la Superlega

Time: 5 mins read

La Superlega, come era prevedibile, è naufragata dopo nemmeno un giorno di vita sotto i colpi di una campagna mediatica e politica impressionante. Non credo di ricordare una proposta o un evento che abbiano riscontrato tale biasimo unanime da molto tempo a questa parte. Le inglesi, le prime a smarcarsi, pare abbiano avuto la garanzia dalla UEFA di un aumento del foraggiamento annuale e tanto per adesso basta. Le tradizioni europee e i suoi valori paiono i veri trionfatori della giornata. Eppure, si tratta di un fuoco di paglia. Una riforma in senso globale è sempre all’ordine del giorno nel calcio. Impensabile che si rimanga così per ancora molti anni, quando uno dei più importanti fondi di investimento mondiale è deciso a puntare tutto sul calcio europeo, esportandolo in tutto il mondo. Ed è chiaro come il formato attuale e quello proposto per il 2024 non siano in grado di misurarsi con il mercato globale. Il futuro prevede un percorso simile a quello tracciato dalla Superlega. Magari non si chiamerà in questo modo, magari verrà coinvolta la UEFA. Quelle di Agnelli e co. rimangono idee con le quali confrontarsi.

Le ragioni della Superlega sono le ragioni del capitalismo più avanzato. Il tentativo è quello di de-territorializzare il calcio e renderlo fruibile in Asia, America, Oceania. Per quale motivo sarebbe un male esportare il meglio del nostro prodotto sportivo in altri continenti? Non fanno gli americani lo stesso con l’NBA?

Al di là del campionato inglese, gli eventi calcistici che possono attirare un mercato non europeo si riducono a quelle quattro o cinque partite di Champions League che avvengono nella limitatissima finestra temporale che va da marzo ad aprile. Il resto non può essere altrettanto attraente. Come potrebbe interessar loro un Cagliari-Parma o un Crotone-Benevento? Il risultato è che bisogna accontentarsi di ricavi minimi che non soddisfano i progetti di crescita delle maggiori società di calcio.

Il presidente della Juventus Andrea Agnelli con l’allenatore Andrea Pirlo (YouTube)

Il calcio ha bisogno di investimenti. Questo mi pare essere un fatto certo. Gli stadi italiani sono fatiscenti e pericolosi. Il dislivello rispetto alle altre leghe europee è abbacinante. Bisogna fare qualcosa. Si può fantasticare sul fatto che Agnelli e gli altri presidenti facciano investimenti a fondo perduto per il bene del paese e del territorio, ma si tratterebbe di pie illusioni. Se si vuole progredire, il calcio deve quindi cambiare e per farlo bisogna rivoluzionare le competizioni europee. Che se ne occupi la Superlega o la UEFA non cambia il fatto che bisogna andare verso soluzioni diverse. Per quanto possa essere giusto garantire un accesso minimo alle squadre più virtuose dei singoli campionati nazionali, rimane il fatto che vedere lo Young Boys scontrarsi con il Ludogorets non è avvincente e appassionante.

Si accusa il calcio dei ricchi di non occuparsi dei suoi fratelli minori, delle categorie più piccole, meno in vista. Da questa mattina, l’universo del tifoso medio è tutto improperi e sbalordimenti. Di questo non mi colpisce l’ipocrisia, compagna abitudinaria di ogni dibattito social, ma la mancanza di realismo, l’incapacità di essere attaccati agli eventi nella loro portata materiale. Il capitalismo, nella sua versione sportiva e calcistica, premia già una fortunatissima élite, e non certo le categorie minori, i campetti di provincia. Né si vuol fare una questione etica quando ci sono giocatori e allenatori che guadagnano 30 milioni l’anno e società sportive che manomettono bilanci ad hoc pur di rientrare nelle regole del fair play finanziario. Parliamo davvero di una delle industrie più elitarie e meno etiche che possano essere concepite.

La ribellione di tifosi e stampa mi pare essere fortemente ideologica, non etica e nemmeno morale. Non si può credere con coscienza e ragione che davvero il punto sia quello.

Che i club puntino ad aumentare i bilanci e cerchino di ingrandirsi costantemente è una regola finanziaria inevitabile. Il capitalismo funziona attraverso l’espansione dei suoi flussi; o continua a farlo o muore. Quello che infastidisce è qualcos’altro. È la rottura di un equilibrio organicista che legherebbe tutte le parti di una società attraverso la possibilità teorica che anche gli ultimi possano diventare i primi, o che comunque a questi ultimi vada riconosciuta pari dignità e grandezza.

L’ideologia organicista non fa sconti al nostro subconscio. Siamo completamente succubi dell’idea che l’unico modo di far parte di una società sia quella di essere costantemente legati gli uni agli altri, in una sorta di competizione naturale che, benché parta da privilegi di nascita diversi, possa portare a simili raggiungimenti. Un unico modello in cui cui siamo tutti globalmente presi e connessi e che nonostante punti a produrre ricchezza economica, deve continuare a fingere di rispettare le care regole inclusive della vecchia Europa, capitalista sì ma con moderazione.

Infastidisce che si possa non essere tutti parti della stessa causa. Le squadre di provincia preferiscono raccogliere le briciole degli introiti di uno spettacolo che le vede comparse piuttosto che creare un modello nuovo, alternativo. Da qui questa incredibile campagna mediatica per costringere i grandi club, l’aristocrazia del calcio, a continuare a rimanere insieme, in quanto coinvolti in una stessa storia e territorialità. Siamo al rovesciamento del famoso apologo di Agrippa: sono i piccoli a dover convincere i grandi della loro funzione organica all’interno del corpo sociale. E questo nonostante le squadre più potenti sfruttino già fino all’osso tutte le risorse disponibili.

Eppure, sarebbe così semplice operare una sintesi disgiuntiva che tenesse insieme questi due mondi senza collegarli necessariamente in una sola entità. Le leghe inferiori potrebbero costruire il loro calcio e produrre il loro spettacolo sfidando le grandi squadre d’Europa da un livello completamente nuovo. Uefa e Superlega avrebbero campionati diversi e finalmente due modelli alternativi di sviluppo potrebbero entrare in competizione fra loro. Potremmo vedere un modello globalizzato e spettacolare (ma autoreferenziale) sfidare in termini di mercato e di produzione di bellezza i campionati storici e le competizioni europee classiche con il loro sistema organico di distribuzione di ricchezza e l’idea che anche la più piccola delle provinciali possa un giorno vincere qualcosa di importante.

Sarebbe bello vedere questi due modelli fare parte del nostro mondo contemporaneamente. Il tifoso non dovrebbe di certo scegliere e quando anche lo facesse, andrebbe solo a premiare un modello, a renderlo più ricco. In questo possibile mondo aperto, flussi de-territorializzati e globali si confronterebbero a rizomi e radicamenti. Ma invece di cercare di creare due modelli potenzialmente virtuosi, ci si attacca al solito vecchio rancore che tiene unito il modello unico di sempre.

In serata pare che la Uefa abbia offerto qualche soldino in più ai club inglesi che si sono smarcati immediatamente dalla Superlega timorosi di perdere l’attaccamento dei loro tifosi, che a torto li attaccano di avarizia. Tutto questo sa molto di vecchia Europa: finto socialismo che crea le stesse disuguaglianze di un capitalismo avanzato, trita ideologia organicista, statalismo esasperato e i soliti campanilismi regionali di guelfa memoria.

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Alessandro Martina

Alessandro Martina

Alessandro Martina, nato in Puglia 37 anni fa, si è laureato in Filosofia all’Università di Bologna e in Linguistica all’Università della West Virginia. Attualmente è dottorando in Italian Studies alla Università del Wisconsin-Madison.

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