Sin dal primo lockdown dovuto al corona virus, in molti si sono chiesti quali sarebbero state le conseguenze per il commercio, l’industria, ma soprattutto le fonti energetiche e, in particolare, il petrolio, forse il settore più colpito dalla pandemia (almeno nel primo periodo).
Ancora oggi, l’andamento dei contagi è molto incerto (in alcuni paesi sono in netto calo, in altri non sono mai diminuiti in altri ancora stanno risalendo), ma in molti hanno cominciato a fare bilanci e hanno azzardato qualche previsione per il prossimo futuro.

John Browne, Lord di Madingley, ex amministratore delegato di BP e attuale presidente del Francis Crick Institute per la ricerca biomedica, in un’intervista esclusiva al programma CERAWeek Conversations, ha parlato dell’impatto che ha avuto la pandemia sul futuro dell’industria petrolifera. Ma anche sulla lotta ai cambiamenti climatici e sulla transizione energetica verso fonti energetiche rinnovabili.
“Mi aspetto una ristrutturazione significativa del settore indipendente” specie negli USA, ha detto Browne. “I beni non vanno via. Sono semplicemente messi nelle mani di persone con finanze migliori o una migliore gestione finanziaria. Saranno le major o qualche imprenditore che escogiterà un modo diverso di estrarre il petrolio appena sufficiente in modo che non abbiano bisogno di prendere in prestito denaro per farlo. Ci sarà bisogno di un’autosufficienza finanziaria”.
Per Browne, il problema non è nella scelta se utilizzare o meno il petrolio come risorsa energetica ma “chi” e soprattutto “in che modo” convincere la gente a continuare ad utilizzarlo. Anzi, a tornare ai consumi pre crisi. Una risposta che non può non sorprendere considerando le pressioni esercitate dalle grandi multinazionali del petrolio su alcuni governi (USA in primis: si pensi alla decisione di sfruttare le risorse in Alaska).
Molte misure “verdi”, proposte e propagandate come “ambientaliste”, non avranno grande impatto sui consumi di combustibili fossili. Basti pensare alle agevolazioni proposte da molti governi per promuovere il passaggio a vetture ibride (con alimentazione elettrica e a benzina). Questo non avrà un impatto decisivo e i consumi di combustibili fossili non si ridurranno, se non in minima parte.
Bisogna cercare di capire in che modo si stanno evolvendo le abitudini della gente. Come ha dichiarato il Sultano Ahmed Al Jaber, Ministro dell’Industria e della Tecnologia Avanzata degli Emirati Arabi Uniti e amministratore del Gruppo ADNOC: “Dobbiamo venire a patti con le realtà sul campo. È chiaro che nessuna singola fonte di energia può soddisfare la domanda globale di energia a lungo termine. Anche negli scenari di transizione più frenetici, petrolio e gas continueranno a fornire oltre la metà dell’energia mondiale. Questo ci presenta la sfida chiave di come produrre più energia con meno emissioni. Spetta a noi produttori di petrolio e gas fornire quell’energia nel modo più responsabile e sostenibile possibile”.

Una posizione che richiama quanto affermato da Browne: che non si tratta di una “riduzione dei consumi” di combustibili fossili, ma di una “riorganizzazione del settore”. Un cambiamento influenzato più che dalla voglia di “ambiente” o dalle pressioni degli ambientalisti come Greta Thunberg, da altri fattori. Primo fra tutti l’accesso ai finanziamenti. “Quando guardano al futuro, ovviamente guardano a se stessi e dicono: dobbiamo fare appello ai nostri investitori. Ciò significa che non solo dobbiamo avere grandi ritorni finanziari, ma anche fare cose che la società vuole davvero che facciano: non produrre così tanta anidride carbonica, ridurre la loro impronta di carbonio, ridurre la loro impronta di emissioni di metano”, ha affermato Browne.
Ciò nonnostante le emissioni di CO2 restano uno dei temi caldi: abbandonato, pare ormai definitivamente, il progetto lanciato durante la COP di Parigi, a cambiare le carte in tavola potrebbe essere la Corte dei Conti europea. La relazione presentata nei giorni scorsi non lascia spazi alle multinazionali del petrolio: “Il sistema di scambio di quote di emissioni dell’UE e l’assegnazione gratuita di quote doveva essere più mirata”. Dalla convenzione di Kyoto in poi è stato introdotto il principio dello scambio delle quote di emissioni di CO2. Un sistema che nessuno, neanche durante la COP di Parigi, era mai riuscito a mettere in discussione. Un modus operandi che ha permesso a molte industrie (e alle multinazionali che le rifornivano) di sforare i limiti di emissioni di CO2 senza pagare un centesimo per i danni causati all’ambiente.
Ora, finalmente, la Corte dei Conti europea ha dichiarato che questo modo di fare è sbagliato: “Le quote gratuite rappresentano ancora oltre il 40% di tutte le quote disponibili nell’ambito del sistema di limitazione e di scambio di quote di emissioni (ETS) dell’Ue. Queste quote gratuite, distribuite ai settori dell’industria, dell’aviazione e, in alcuni Stati membri, dell’energia elettrica, non sono state opportunamente mirate. Inoltre, la velocità della decarbonizzazione nel settore dell’energia si è significativamente ridotta”. Secondo i giudici “L’ETS dell’Ue utilizza le quote gratuite per scoraggiare le imprese dell’UE dal trasferire l’attività in Paesi non-Ue con standard ambientali meno rigidi. Tale trasferimento, noto come “rilocalizzazione delle emissioni”, comporterebbe infatti una riduzione degli investimenti nell’Ue e un aumento delle emissioni a livello mondiale”.
Un aspetto che Browne, grande esperto della materia non può non conoscere. “Dobbiamo pensare molto attentamente alla resilienza di fronte alla natura che fa cose piuttosto straordinarie, soprattutto se le induciamo dalle attività che abbiamo fatto, vale a dire l’immissione di molta CO2 nell’atmosfera e la creazione di un cambiamento nel clima”, ha detto Browne, “Il cambiamento climatico è causato dall’uomo e sarà qualcosa che la natura rafforzerà e causerà problemi”.

Un cambiamento, una presa di coscienza, forse frutto proprio della pandemia in atto: “Questo è stato rafforzato dalla crisi COVID”, ha detto Browne, “La trasformazione energetica è viva e vegeta. Penso che i governi penseranno molto duramente per tornare indietro prima di intraprendere qualsiasi cambiamento. In queste transizioni che vediamo oggi sicuramente il governo è tornato alla grande. Quindi aspettate regolamentazione e tasse”.
Difficile dire se ciò avverrà: in tutti i paesi la pandemia ha causato crisi economiche senza precedenti e un crollo del PIL che per molti è stato di due cifre. I soldi “prestati” dai vari organismi internazionali ai singoli governi per far fronte alla pandemia dovranno in qualche modo essere restituiti (e con gli interessi). Sperare di poter caricare sulle spalle dei cittadini ulteriori spese per la conversione del settore energetico appare anacronistico. Con il costo del petrolio ai minimi storici, se da un lato è improbabile che le fonti energetiche veramente “verdi” possano svilupparsi rapidamente, dall’altro, è impensabile che le multinazionali del petrolio possano farsi carico di maggiori costi.
Lasciano perplessi alcuni dei suggerimenti di Browne: “Una visione diversa dell’efficienza quando si tratta di business: ‘Just-in-time’, inventario di riserva, catene di fornitura estese sono tutti fattori molto importanti. E hanno fatto grandi cose per il mondo”, “Penso che ci sarà un cambiamento nel modo in cui le persone pensano agli affari”. Peccato che il “Just in time” citato esista già da almeno un trentennio (in Italia, in altri paesi da più tempo).
“Se puoi produrlo localmente, probabilmente dovresti farlo, a condizione che tu possa farlo a un costo effettivo”, è il suggerimento di Browne. Una proposta che lascia ancora più perplessi della precedente. Browne sembra avere dimenticato che la delocalizzazione delle multinazionali e delle grandi imprese è dovuta proprio alla volontà di abbattere i costi di produzione scegliendo paesi dove la tutela dei lavoratori è minima, dove i salari e il carico fiscale sono più bassi, paesi dove anche le tutele per l’ambiente sono quasi assenti o dove le multinazionali possono sfruttare il lavoro minorile (come ha denunciato più volte l’ILO).
Invertire questo processo e tornare al “se puoi produrlo localmente devi farlo” è surreale. Quasi quanto sperare che le multinazionali del petrolio cambino idea e si convertano a fonti energetiche rinnovabili. Come emerge da un’intervista, diffusa dalla stessa CERAWEEK, nel corso della quale, i dirigenti di alcune delle principali società petrolifere e del gas hanno esaminato le tecnologie e le strategie di decarbonizzazione che potrebbero avere il maggiore impatto nella riduzione delle emissioni e nel raggiungimento di un futuro a basse emissioni di carbonio.
Gli sforzi per mitigare i cambiamenti climatici rischiano di essere vanificati dal basso prezzo del petrolio e da una depressione globale che richiederà tempo e denaro per essere curata. Fattori che potranno far sì che gli sforzi per il clima vengano messi da parte. Uno scenario che comporterebbe un crollo degli investimenti nel settore petrolifero fino a far emergere carenze di approvvigionamento e un aumento dei prezzi. “Siamo proprio all’inizio [di questo dibattito]”, ha detto Browne. “Una crisi sanitaria cambia in modo significativo gli atteggiamenti delle persone e questo arriverà all’industria petrolifera”.
Il settore delle fonti energetiche e del petrolio (e non solo quelli) sono ancora pieni di incertezze. Nessuno, oggi, è in grado di sapere come si evolverà la situazione e quale peso avranno le scelte dei vari governi (americano, europeo, cinese e mediorientale). Ma soprattutto nessuno è in grado di prevedere come si evolverà la situazione in Africa, ancora una volta origine e cartina di tornasole di cambiamenti sociali, ambientali, economici ed energetici di tutto il pianeta.