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July 3, 2020
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Come abbiamo distrutto la Terra e preparato il terreno alle malattie come il Covid-19

Storia dell'obsolescenza programmata e pianificata, cioè quella strategia di produzione a danno del consumatore, l'usa e getta che ci sta uccidendo tutti

Alina Di MattiabyAlina Di Mattia
Come abbiamo distrutto la Terra e preparato il terreno alle malattie come il Covid-19
Time: 7 mins read

Take, make, use and dispose, ovvero estrarre, produrre, usare e gettare. Un fenomeno socio-economico,  quello del consumismo, che ha indotto le persone ad acquistare un prodotto che nella maggior parte dei casi non serviva o, ancor più spesso, per sostituirne uno pressoché uguale che aveva smesso di funzionare poiché la sua durata era stata programmata a tavolino, insieme ad una dispendiosa se non impossibile riparazione.

Sto parlando della famosa obsolescenza programmata o pianificata, una strategia di produzione a danno del consumatore (e dell’ambiente), in base alla quale gli oggetti che acquistiamo – abbigliamento, elettrodomestici, prodotti e software informatici in particolare –  nascono con un ciclo di vita prestabilito allo scopo di aumentare i profitti delle aziende. Un sistema creato ad hoc per produrre beni di qualità scadente e di durata sempre minore che, secondo il Global EWaste Monitor della United Nations University ha generato in un solo anno la bellezza di 44,7 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici. Oltre al nostro pianeta ne hanno pagato le conseguenze sia i consumatori europei con un ammanco di circa 100 miliardi di euro (fonte Codacons), sia la spesa pubblica (tanto che il presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli, ha sollecitato più volte norme atte a regolare gli acquisti dei beni della PA).

Sotto la spinta di falsi bisogni imposti dai mass media a quella che è diventata una massa informe e acritica di consumatori, i prezzi crollano, la gente acquista, il sistema  produttivo cresce. In effetti il ragionamento non fa una piega o, almeno, non la faceva fino all’arrivo del Covid-19 che ci ha costretto a rivedere le nostre priorità. Durante l’emergenza sanitaria, infatti, davanti alle necessità essenziali come cibo, medicinali, prodotti per l’igiene personale, tutto il resto è passato in secondo piano, tanto che la maggior parte degli oggetti che hanno riempito e invaso le nostre case sono risultati assolutamente inutili e ridondanti.

Per capire come siamo entrati in questo circolo vizioso dobbiamo fare un salto in Svizzera, nel 1924, l’anno in cui fu istituito il famoso Cartello Phoebus secondo cui i produttori di lampade ad incandescenza quali General Electric, Tungsram, Compagnie di Lampes, Osram, Philips, decisero di accorciare la durata delle lampadine a 1000 ore in modo da incrementarne la produzione.

Fu il primo esperimento di obsolescenza pianificata di un prodotto. Roba da far resuscitare il buon Thomas Edison che nel 1881 progettò una lampada con una durata superiore a 1500 ore!

Foto di Mohit Parashar

La prima lampadina a scadenza arrivò dopo un paio di decenni dalla realizzazione, da parte dalla Shelby Electric Company, della famosa lampada centenaria (the centennial light) ancora accesa nella caserma dei Vigili del Fuoco di Livermore-  Pleasanton in California ed entrata ormai nel Guinness dei primati.

Quando i chimici dell’azienda DuPont presentarono in anteprima il nylon, una fibra sintetica rivoluzionaria utilizzata per la realizzazione di calze femminili, ricevettero lo stesso ordine di standardizzazione già intimato ai produttori di lampadine. Per la Commissione “la fibra era troppo resistente e le calze duravano troppo”. Fu quindi ordinato loro di progettare calze che si smagliassero e con una durata limitata.

Si tornò a parlare di obsolescenza anche nel 1929, durante il crollo di Wall Street. Gli Stati Uniti, finiti nel vortice della recessione e in un periodo di grave stallo, avevano bisogno di far ripartire l’economia in tempi brevi.  Ebbene, tra le tante proposte si fece largo quella di Bernard London, il quale invitò le aziende a rendere obbligatorio il ciclo di vita a tempo per i beni di consumo attraverso una scadenza che avrebbe centuplicato gli acquisti e, di conseguenza, aumentato i posti di lavoro.

Inizialmente ignorata la proposta tornò a farsi strada negli anni ’50 con Brooks Stevens, progettista industriale, che suggerì non soltanto di accorciare la durata dei beni di consumo, ma di indirizzare il pubblico all’acquisto facendo pressione sulla psicologia del consumatore e quindi sulla ricerca ingannevole della felicità. Come? Usando gli elementi dell’economia capitalista che hanno contribuito ad alimentare il dilagante fenomeno dell’usa e getta rendendo le persone dipendenti dagli acquisti: ciclo di vita del prodotto ridotto, pubblicità, credito al consumo. Quello che accadde dopo lo conosciamo tutti. Quello che non sappiamo è che il fenomeno era stato denunciato fin dagli anni ’20 del Novecento dai maggiori esponenti della Scuola di Francoforte, ma non bastò a metterci in guardia.

I consumatori  vittime inconsapevoli del totalitarismo massmediatico?

Abbiamo comprato, usato e scartato ad oltranza cellulari, frigoriferi, hi-fi, frullatori, lampade, fornelli, stampanti che si rompono appena arrivano a ‘totmila’ copie, computer che terminano le loro funzioni dopo un paio di anni, apparecchi elettronici con batterie che costano più degli apparecchi stessi e ogni sorta di congegno che nel giro di pochi mesi si è trasformato in e-waste (rifiuti elettronici), per riempire i nostri vuoti esistenziali con oggetti a tempo e soddisfare le nostre necessità inesistenti, e poco ci è importato se sono finiti nelle discariche del pianeta.

Ci hanno detto che la riparazione di tali prodotti fosse complicata e dispendiosa. E allora ne abbiamo acquistato dei nuovi lavorando due, tre, quattro volte di più, abbandonando affetti e vita sociale il cui valore abbiamo riscoperto solo sperimentando la separazione dovuta al lockdown, diventando attori di un folle ciclo ad infinitum.

Ci siamo nascosti dietro ai Raee, il famoso eco contributo attivo nei Paesi dell’Unione Europea per smaltire i rifiuti di apparecchiature contenenti sostanze pericolose per la salute, tassa che anticipiamo al momento dell’acquisto di un nuovo prodotto elettronico.  Tuttavia, qualcuno ha deciso che smaltire i nostri rifiuti nelle aree più povere del mondo sarebbe costato meno che a casa. E difatti, 600 container contenenti la nostra immondizia – di cui almeno la metà non riutilizzabile –  sono partiti ogni mese per essere ammassati in 50 discariche del mondo, in particolare nel Ghana, ad Agbogbloshie. Guardate che spettacolo abbiamo allestito insieme:

Il consumismo selvaggio di prodotti a tempo è andato di pari passo con quello relativo al consumo eccessivo di cibi industriali e manipolati, come ad esempio la carne ottenuta dagli allevamenti intensivi di animali che come ampiamente dimostrato incidono in modo significativo sulle emissioni di gas serra.  Questo smodato consumo di carne, oltre ad essere eticamente scorretto, ha generato evidenti problemi di salute nella popolazione e prodotto un impatto negativo sull’ambiente intervenendo nel contagio da Coronavirus. Difatti uno studio medico su Environmental Pollution  ha analizzato le correlazioni tra l’inquinamento e la pericolosità del Covid-19.

La conferma che lo stile di vita moderno e le cattive abitudini della popolazione attuale hanno contribuito ad avvelenare l’aria dei nostri cieli e l’acqua dei nostri mari! Ergo, all’indomani della pandemia è paradossale dare ulteriore spazio all’ipocrisia della sostenibilità ambientale.  C’è chi ha adottato uno stile green living e quindi  non più standardizzato e più vicino alla Natura, chi ha deciso di trasformare la propria start up in eco-friendly  chi lavora sull’azzeramento dei rifiuti e sulla riparazione dei beni di consumo, chi si occupa del loro recupero e riutilizzo come suggeriva il decrescista francese Serge Latouche in epoca ante litteram.

Se pensate che in questo modo andranno persi quei posti di lavoro sopravvissuti al post emergenza sanitaria, vi rassicuro: la robotica sta facendo passi da giganti e i lavoratori saranno sistematicamente sostituiti da robot veloci, precisi, che lavorano 24 ore di seguito, notte e giorno, ininterrottamente. Non scioperano, non si ammalano, non chiedono assegni familiari o congedi per maternità, non si lamentano e non hanno i sindacati alle spalle!

Foto di Tom Fisk

Alla luce di questa terribile esperienza che ci ha colpito indistintamente è ormai chiaro che il globo terrestre non è in grado di supportare una crescita economica infinita, e la pandemia ne è stata una conseguenza. È evidente che il concetto criminale degli oggetti disposable (monouso) è incompatibile con le risorse del nostro pianeta.  Lo stesso Gandhi ci ammonì: “Sulla Terra c’è abbastanza per soddisfare i bisogni di tutti, ma non per soddisfare l’ingordigia di pochi”.

Ciascuno di noi ha quindi il dovere di impegnarsi quotidianamente per la riduzione dei rifiuti scegliendo prodotti riutilizzabili e riparando ove possibile, puntando prima di tutto ad un’economia circolare in cui il take, make, use and dispose sia trasformato in take, make, use and reuse, e diventi una priorità insieme al concetto di Km Zero.  Una soluzione potrebbe certamente arrivare dalla filosofia della Blue Economy ideata dall’economista Gunter Pauli che, da oltre 25 anni, interviene su territori con economie al collasso, promuovendone le risorse locali, creando valore dalle stesse e restituendo  zero rifiuti.

“La civilizzazione consiste non nella moltiplicazione, ma nella intenzionale e volontaria riduzione dei bisogni. Se non ci fermiamo, una produttività sempre più alta richiederà un numero sempre minore di lavoratori e un numero sempre maggiore di macchine efficienti e veloci, e il risultato sarà che uomini e donne resteranno disoccupati e considerati scarti della società”. 

Non l’ho detto io, l’ha detto ancora Gandhi.

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Alina Di Mattia

Alina Di Mattia

Artista del vecchio mondo, scrittrice del presente, Alina Di Mattia è nata nel cuore d’Italia e vissuta con il mondo cucito addosso. Si è occupata della produzione e della comunicazione di grandi eventi istituzionali e culturali ed è stata promotrice di campagne di sensibilizzazione sociale. All'attività artistica e manageriale ha affiancato quella di giornalista freelance. Il suo motto preferito: “Le ali per volare, le radici per non perdersi mai”. Alina Di Mattia is an Italian journalist, blogger and author with over thirthy years of experience in Media and Communication. She has dealt with Music and Show Business, press office and promotional activities, special events with public Administrations, and has promoted social awareness campaigns. Her favorite motto: “Wings to fly, roots to never get lost”.

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