Invitato al programma che il padre degli exiteer britannici e leader di Brexit Party, Nigel Farage, ha sulla sua antenna radio Lbc, Leading Britain’s Conversation, Donald Trump ha ribadito opinioni manifestate a più riprese, ma non per questo meno gravi. Conferma di desiderare ardentemente che i britannici si stacchino dall’Europa continentale e che agiscano da soli nel commercio internazionale; si schiera contro il sistema sanitario nazionale creato dai laburisti, come dai socialisti in Italia, a tutela della salute dell’intera popolazione; fa tifo per i conservatori e chiede che si alleino con il suo compare Farage alle elezioni del 12 dicembre (“sareste una coppia perfetta per completare la Brexit”); diffida con toni apocalittici i britannici a votare per i laburisti, insolentendone il leader Jeremy Corbyn (“finireste molto male con lui”).
Trump si guarda bene dal raccontare ai britannici le considerazioni che in America, su Project Syndicate Newletter, ha proposto Ngaire Woods, preside della Blavatnik School of Government e professoressa di Global Economic Governance all’università di Oxford. Woods elenca un po’ di questioni aperte nel commercio internazionale, che cadranno come una mannaia sui Brits appena dovessero trovarsi senza più lo scudo protettivo dei 27 partner. I nuovi accordi commerciali bilaterali richiedono tempo per essere stipulati e ratificati, e comunque i loro vantaggi saranno sempre inferiori a quanto si perderà con la cessazione del partenariato Ue.
L’insieme del commercio britannico con Australia, Canada, India e Nuova Zelanda, per un esempio, è inferiore al commercio britannico con la sola piccola Olanda. Londra pensa di appellarsi all’Omc, ma questa, come ricorda Woods, a causa del blocco delle nomine voluto da Trump, perderà fra qualche mese la capacità di affrontare ogni contenzioso dovesse essere portato alla sua attenzione. Se poi, osserva la professoressa, il discorso si spostasse sul rapporto di Britannia con i colossi americano e cinese, è immaginabile che i due sistemi presi dal reciproco guerreggiare, ben poco concederebbero a una Gran Bretagna ormai ridotta a scarsissimo potere negoziale. Solo gli illusi o i politici in mala fede, fa capire Woods, possono affermare a Londra che la special relationship con Washington possa sostituire nei negoziati la perduta “market size”. Chiude, la saggia prof., ricordando che il mondo va in direzione diversa da quella che propugnano i conservatori britannici e statunitensi: stanno nascendo altri importanti raggruppamenti commerciali regionali come African Continental Free Trade Area e Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp), mentre è sulla retta d’arrivo il rinnovo dell’accordo tra Ue e Mercosur.
Non contento per aver così impropriamente interferito con la campagna elettorale di un paese amico ed alleato, il presidente degli Stati Uniti si spinge oltre e fa pipì fuori dal vasino della sanità pubblica britannica (ragione dell’invito alla trasmissione radiofonica) e del commercio, rinnovando l’appello agli altri 27 paesi dell’Ue a sciogliere il sodalizio che li lega. Evidentemente preoccupato per la svolta europeista che il Conte 2 ha effettuato rispetto al Conte 1, si rivolge esplicitamente all’Italia: “Parliamo soltanto di commercio, che nel vostro caso, se faceste un accordo con noi, sarebbe quattro cinque volte più grande di adesso, e la vostra economia ne gioverebbe moltissimo. Ma oggi voi siete bloccati dall’Unione Europea, come altri Paesi nell’Ue. Anche l’Italia e altri Paesi starebbero molto meglio senza l’Unione Europea”.
Aggiunge, facendo capire che se gli europei volessero continuare a farsi del male da soli lui non potrebbe impedirlo, visto che (purtroppo?) le regole della democrazia americana gli vietano di andare oltre la blandizia: “Ma se questi paesi vogliono rimanere in Ue, ok”.
Siccome, oltre a sgrammaticatura e frasi senza senso compiuto, il pane quotidiano dei nazionalpopulisti è affermare il falso dando per scontato che chi ascolta lo assorba senza chiedere le prove di quanto detto, è utile approfondire il testo trumpiano per evidenziarne le mezze verità (che sono tre quarti di bugia) e le contraddizioni interne. Dire che sul piano bilaterale il commercio Usa-Gran Bretagna sarebbe quadruplo o quintuplo di quanto sia nell’attuale situazione multi-bilaterale è un non senso, e lo ha spiegato la professoressa Woods qui citata. Ma c’è dell’altro: Trump, evocando la crescita del commercio bilaterale, nulla dice su chi ci guadagnerebbe o rimetterebbe, pur lasciando intendere che ci guadagnerebbero gli europei. La falsità intrinseca dello sproloquio trumpiano, è mostrabile attraverso un banale ragionamento. Se oggi Londra vende a Washington 2 e compra da Washington 1, Londra sta guadagnando 1 nella sua bilancia commerciale. Se, come profetizza Trump il commercio pari a 3 (2+1) quintuplica e diventa 15, ma Londra vende 6 e passa a comprare 9, nella bilancia commerciale bilaterale sta perdendo 3, proprio ciò che il furbone del signor Trump porta a saldo positivo in casa sua.
Chi dice troppe bugie rischia di dimenticarne qualcuna e di pronunciare inavvertitamente verità che lo sbugiardano d’improvviso. Succede che l’inquilino della Casa Bianca, nell’intervista a Farage, pronunci la seguente frase: “Ma sappiate che in Europa governano persone con le quali è molto difficile negoziare, mentre con me sarebbe tutto più facile: faremmo subito un accordo commerciale con voi”. Ammesso che la frase abbia una sua logica interna e non sia semplicemente ridicola (all’inizio lui negozia con gente difficile, poi negozia con se stesso, quindi non si sa con chi, salvo il gran finale nel quale lui singolare diventa subitaneamente plurale e tutto finisce a tarallucci e vino con l’accordo commerciale del quale comunque non ci spiega né i soggetti contraenti né i termini che hanno consentito di chiudere la controversia), l’uomo di America First! sembra voler comunicare di essere un generoso benefattore che consiglia ai competitor europei di sbarazzarsi di governanti che sono “persone con le quali è molto difficile negoziare”. Scusi Donald, ma davvero ci immagina così gonzi? A noi europei fa un gran piacere che lei abbia difficoltà a negoziare con i nostri governanti. Ci preoccuperebbe il contrario perché significherebbe che non fanno valere le loro ragioni e che hanno calato le brache. La Commissione Europea è generosa con i paesi in sviluppo e tosta con i paesi ricchi o che lo stanno diventando (ne sa qualcosa la Cina): guardi cosa stanno passando i suoi amici Brexiteer e capisca che i rapporti di forza commerciali non le sono favorevoli. Si acconci, su!
La verità è che la piega che stanno prendendo i rapporti tra Eu e Usa è un tremendo errore storico, che si doveva e poteva evitare. Molte autorevoli voci, negli Stati Uniti, negli anni novanta avevano avvertito che il risorgimento dell’Europa, attraverso il binomio recupero della zona centro-orientale post comunista e creazione dell’Unione economica e monetaria, potesse risultare sgradito a una parte dell’establishment politico ed economico, ma in pochi si erano spinti a intravedere i rischi collegati. Tra questi certamente l’economista C. Fred Bergsten, già Assistant Secretary al Tesoro con Carter e Assistant per gli affari economici internazionali al National Security Council di Henry Kissinger, che, giusto vent’anni fa, pubblicò su Foreign Affairs un saggio dal titolo piuttosto esplicito, America and Europe: Clash of the Titans? Non ci fosse stato il punto interrogativo, sarebbe stato uno scritto profetico.
L’autore vedeva nella nascita dell’euro l’opportunità positiva per un nuovo ordine economico internazionale bipolare, in grado di rimpiazzare l’egemonia americana del dopoguerra. Affermava, inoltre, che, iniziando con la valuta comune, l’Europa avrebbe presto potuto sviluppare un sistema di difesa autonomo, smettendo di pesare militarmente sulla finanza degli Stati Uniti. Bergsten ricordava come negli accordi commerciali multi-bilaterali, gli Stati Uniti avessero appreso ad accettare e rispettare il nuovo potere commerciale europeo, ormai equivalente a quello storicamente esercitato dagli Stati Uniti dopo la caduta dell’impero britannico, e ipotizzava che lo stesso potesse accadere in altri settori, come appunto finanza e difesa. Concludeva con due auspici: che si puntellasse la stabilità del sistema internazionale attraverso l’attivazione del trilogo Usa-Ue-Giappone (la Cina era lontana dall’attuale potenza; sul potere cinese Bergsten si sarebbe ricreduto con un libro del 2008), che si lavorasse al Transatlantic Century scegliendo di confermare, nella politica internazionale americana, la tradizionale opzione atlantica invece di innovare ascoltando le sirene dell’Asian Rising.
Bergsten si appellava alla lungimiranza di politici come James Baker, ma sapeva che il sistema americano esprimeva anche altro, per cui ammoniva: “The US will either have to adjust to this new reality or conduct a series of rear-guard defensive actions that will be increasingly futile and costly – like the British did for many decades as their leadership role declined.” Non per questo risparmiava gli europei: “The EU will either have to exercise positive leadership, which it now can do, or become highly frustrated at home and a spoiler abroad.”
Bergen prevedeva le spinte contrarie, in Europa e America al suo Grand design atlantico, ma sapeva al tempo stesso che poteva essere percorso, purché gli Stati Uniti rinunciassero alla pretesa egemonica sul vecchio continente e gli europei proseguissero nella via virtuosa dell’Unione imboccata grazie al trio Mitterrand Kohl Craxi, con la regia di Jacques Delors. Le cose sono andate diversamente: e stiamo pagando la fattura emessa dagli stantii nazionalismi dell’Europa centro orientale e, inattesi, dal rivendicazionismo primate degli Stati Uniti.
Con Trump gli Stati Uniti hanno portato alle estreme conseguenze la sindrome da Lonely Superpower evocata dal politologo internazionalista Samuel P. Huntington nello stesso periodo del saggio di Bergsten, sempre sull’autorevole Foreign Affairs. L’autore della teoria sul conflitto fra le civiltà notava come si stesse diffondendo nell’élite di governo un’errata percezione della storia e delle cose del mondo: “American officials quite naturally tend to act as if the world were unipolar. They boast of American power and American virtue, mailing the United States as a benevolent hegemon”. Huntington spiegava che Washington era percepita dalla famiglia delle nazioni come la più grande minaccia singola, “… as a menace to their integrity, autonomy, prosperity, and freedom of action. They view the United States as intrusive, interventionist, exploitative, unilateralist, hegemonic, hypocritical, and applying double standards, …”. L’allora professore di Harvard, rilevando le premesse dei disastri che l’America si stava apparecchiando, avvertiva sulla necessità di salvaguardare il rapporto atlantico: “… the interaction of power and culture has special relevance for European-American relations. … The relation with Europe is central to the success of American foreign policy … Healthy cooperation with Europe is the prime antidote for the loneliness of American superpowerdom.“
Due anni dopo ci sarebbe stato l’attacco alle torri gemelle, poi Afghanistan, Iraq, il fallimento delle primavere arabe, l’instabilità congenita della lunga regione mediorientale e del Golfo, l’espansione strategica di Russia e Cina, la messa in crisi della Nato, i voltafaccia americani su riscaldamento climatico ed energie alternative, Iran, multilateralismo. Europei e americani non avrebbero condiviso quasi più nulla, pur salvando l’accordo di facciata e, talvolta, operando fianco a fianco. Ultimo episodio, il dissenso sull’attacco turco al territorio siriano e alle popolazioni curde, che, tra l’altro, a quanto se ne sa, ha rischiato di far saltare anche la missione di distruzione del vertice del Daesh.
Impossibile, nelle attuali condizioni, prevedere che Washington e Bruxelles riprendano un dialogo mai trovatosi in condizioni tanto miserande, sul piano commerciale certo, ma soprattutto sul piano politico.