Poco dopo essersi insediato alla Casa Bianca, uno dei primi incontri del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, fu con i vertici del gruppo automobilistico FCA provenienti da Detroit insieme con i corrispettivi di Ford e GM. Al termine degli incontri tutti sembrarono estremamente soddisfatti.
Ad essere contento sembrò soprattutto il capo di FCA, Sergio Marchionne: per il gruppo ex-torinese mantenere rapporti amichevoli con il presidente era importantissimo. Dal 2009, FCA si è esposta notevolmente per trasferirsi negli USA investendo la stratosferica somma di 9,6 miliardi di dollari. Marchionne in una nota diffusa al termine dell’incontro dichiarò: “Apprezzo l’attenzione del presidente nel rendere gli Stati Uniti un luogo ideale per fare affari.Non vediamo l’ora di lavorare con il presidente Trump e i membri del Congresso per rafforzare l’industria manifatturiera americana”. Un apprezzamento che molti investitori in borsa parvero condividere e il titolo FCA ebbe un forte rialzo a Wall Street.
Ma l’importanza di questo incontro era legata anche alla ricerca di una soluzione pacifica dopo che l’EPA, l’Agenzia della Protezione dell’Ambiente americana, durante la presidenza Obama, aveva lanciato pesanti accuse proprio contro il gruppo FCA per presunte violazioni degli standard per le emissioni. Accuse che FCA sperava potessero cadere nel dimenticatoio vista la decisione di Trump di voler stravolgere l’EPA (come poi ha realmente fatto).
Oggi, le paure di FCA si sono trasformate in realtà: il Dipartimento di Giustizia americano ha citato in giudizio il gruppo italo-americano per alcune anomalie sulle emissioni nocive riscontrate proprio dall’EPA. L’accusa è di aver violato, tra il 2014 e il 2016, le norme del Clean Air Act su 104mila autovetture fabbricate equipaggiate con un motore 3 litri a gasolio. Secondo l’accusa, FCA avrebbe fatto qualcosa di simile a quello di cui è stato accusato (e condannato) il gruppo Volkswagen: avrebbe montato sulle vetture un defeat device, un software capace di eludere i controlli sulle emissioni nocive.
Come se non bastasse, la notizia è giunta solo pochi giorni dopo l’apertura di una procedura d’infrazione da parte dell’Unione Europea contro l’Italia, rea di non aver controllato le reali emissioni di alcuni modelli di vetture prodotti da FCA.
Due notizie che non sono sfuggite ai mercati borsistici come dimostrano le performance negative dei titoli FCA. Il rischio per la ex casa automobili Torino non è solo perdere in borsa, ma perdere credibilità sia negli USA che in Europa. Secondo molti analisti, tra cui Bloomberg, la causa intentata dal Dipartimento di Giustizia americano nei confronti di FCA potrebbe avere effetti rilevanti anche perché, mentre Volkswagen nel 2015 aveva ammesso di aver utilizzato sistemi illegali per superare i test previsti dalla normativa Usa, FCA invece ha sempre negato di averlo fatto.
FCA US, il braccio americano del gruppo, ha replicato in una nota ufficiale che sono in corso “discussioni attive” con la divisione Risorse ambientali e naturali del dipartimento di Giustizia e ha aggiunto: “Nell’eventualità di una qualsiasi causa, FCA US si difenderà con decisione, specialmente contro ogni accusa secondo cui l’azienda ha volutamente installato “defeat device” per barare ai test sulle emissioni”.
La vicenda FCA US, in realtà potrebbe essere solo la punta dell’iceberg: in questo momento è tutto il comparto automotive ad essere un problema per gli USA. Qualcosa che per Trump sarà molto più difficile da risolvere di quanto pensasse. Nonostante gli investimenti dl gruppo FCA (e di altri), Detroit, un tempo patria dell’industria automobilistica americana e mondiale, non sembra essere in grado di riprendersi anche a causa del fallimento delle speculazioni finanziarie fatte da amministratori senza scrupoli.
A questo si aggiunge la concorrenza sempre più forte da parte del Messico che nell’ultimo decennio ha raddoppiato la produzione di automobili e da oltre un anno è il primo produttore americano (con 3.597.462 autoveicoli +0,9% sul 2015).
Una situazione che pesa doppiamente sull’economia statunitense: i maggiori produttori di auto in Messico sono proprio i grandi marchi americani GM, FCA, Ford (cui si aggiungono Volkswagen e Nissan). E nel 2016, la stragrande maggioranza della produzione è stata destinata proprio agli Stati Uniti (77,1%) e al Canada (8,9%). È per questo motivo che Trump sta cercando di alzare barriere (e non solo fisiche) alla frontiera con il Messico: non per fermare i flussi di migranti, ma per arginare i flussi di merci e costringere le case produttrici a pagare un dazio (Trump aveva già minacciato l’imposizione di dazi doganali del 35%) o, in alternativa, a rilocalizzarsi negli USA. Una politica che sembrerebbe aver già dato i primi frutti: Mark Fields, numero uno di Ford ha ringraziato apertamente Trump per le scelte di politica internazionale nei confronti del Messico e ha annunciato di voler annullare la decisione di costruire un nuovo insediamento in Messico a San Luis Potosì e di voler spendere 700 milioni di dollari per ampliare la fabbrica di Flat Rock, in Michigan. C’è chi sostiene che anche la cancellazione degli USA dal TPP, l’accordo di libero scambio, dovrebbe servire a proteggere l’industria manifatturiera americana (quella metalmeccanica prima di tutte).
Oggi il Messico è uno dei principali paesi produttori di automobili nel mondo e continua ad investire in questo settore. Gli esperti prevedono che entro il 2020 questo paese produrrà circa 5 milioni di auto all’anno e i punti di forza, anche nel confronto con la concorrenza cinese, non mancano: basso costo del lavoro, ridotti costi di trasporto e “una domanda crescente di ricambi dei subfornitori”, come ha detto Ulrich Hinterberger, consulente per l’America Latina presso Switzerland Global Enterprise.
Una pressione senza precedenti che potrebbe far comodo a FCA US per chiedere un giudizio o sanzioni meno pesanti rispetto a quelle adottate nei confronti del gruppo Volkswagen in cambio della promessa di ridurre la produzione oltre confine e di restare o potenziare la produzione a Detroit. Intanto i maggiori produttori di auto americani hanno chiesto a Trump di non toccare il North American Free Trade Agreement, il NAFTA: “Our position is that the trade agreement has been a success, and we shouldn’t be touching something as important as the rules of origin”, ha dichiarato ieri Eduardo Solis, presidente dei produttori di automobile del Messico, in una intervista alla Reuters. Intanto il presidente Trump ha annunciato un periodo di consultazioni di 90 giorni con il Congresso, le aziende e tutti i soggetti interessati al NAFTA in vista degli incontri del 16 Agosto, quando gli USA dovranno assumere una posizione precisa circa l’accordo. La guerra è appena iniziata e c’è da stare sicuri che non mancheranno i colpi di scena.