Ci sono situazioni, mutamenti che appaiono ai nostri occhi, ma ai quali non diamo retta. Come muli con i paraocchi continuiamo a vederli come eccezioni, o peggio, da combattere, eliminare. A cosa mi riferisco? Al modo attraverso il quale continuiamo ad innalzare mura e fortificazioni sul tema del made in Italy (ne avevo già discusso tempo fa su questa rubrica).
Mi pare che il made in Italy, se non ci si sofferma alle prime impressioni, stia vivendo un sorta di schizofrenia. Da un lato la globalizzazione sta ridisegnando il quadro economico culturale nel quale esso si muove, dall’altro la politica, sembra, seppur mossa dalle migliori intenzioni, ragionare con i vecchi schemi.
Cosa sta succedendo? Alcuni spunti me li ha dati il nostro direttore Vaccara in un suo pezzo recente che racconta del recente intervento dell’ex vice ministro allo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, organizzato dall’ICE, a New York, intitolato Italy Now: Investment, Opportunity, Impact. Calenda racconta che l’Italia è un paese diverso, che sta cambiando, nel quale investire: “… Noi siamo qui perché vogliamo un grande flusso di investimenti privati dagli USA, venite e comprate anche i campioni del Made in Italy. Perché attraverso la vera partnership, tra capitale e know how, capacità e mercati possiamo costruire una vera alleanza”. Quindi anche i campioni del made in Italy sono sul mercato. Non è una novità. È da tempo che le imprese italiane via via stanno passando in altre mani. Qualche nome: Valentino, Gucci, Lamborghini, Perugina, Gancia, San Pellegrino, Ferrè, Parmalat, Loro Piana, Pernigotti, Algida, Pomellato, Ducati, Italcementi e altri. Molti di questi continuano a vendere come fossero italiani, perché l’Italian way of life vende e non c’è bisogno di cambiare identità al prodotto.
Tuttavia, l’anno scorso sono stati stanziati 118 milioni di euro per l’internazionalizzazione delle imprese, come prescrive il decreto ministeriale, attraverso l’attività dell’ICE, in particolare modo per rafforzare il made in Italy nel mondo e per combattere l’Italian sounding come anche ci racconta il video realizzato da Silvio Muccino. Qui, allora, inizio a vacillare.
Da un lato si dice venite a comprare in Italia le nostre aziende e dall’altro vogliamo andare all’estero difendendo il made in Italy. Dico la verità, non capisco più. Mi pare che si voglia giocare nell’ambiguità, forti di quell’italian way of life capace di suggestionare, far desiderare e aprire il portafoglio comunque. Della serie comprateci pure tanto non cambia niente, perché i prodotti continueranno a vendere solo se percepiti come italiani. Nelle parole di Calenda si chiede agli investitori di “trasformare queste piccole-medie compagnie italiane che hanno un’ottima produzione e anche un buon brand ma che non sono in grado da sole di diventare globali”, cioè di farle diventare dei global brand, ma italiani. Diciamo che c’è dell’astuzia, che, tuttavia, ci può stare visto che il mercato dell’export italiano è comunque forte, affermato e può solamente crescere.
Tutto questo, però, mi continua ad apparire figlio di un’idea moderna, del noi versus voi, tutto determinato dal paradigma dello Stato-nazione e che ci fa perdere di vista molte situazioni nuove, spesso di natura ibrida, che nel mercato si muovono indipendentemente.
Prendiamo il caso dell’Italian sounding per la cui strategia di contrasto verrano spesi dodici milioni di Euro. Si scrive nel decreto, “per favorire l’esportazione di prodotti di origine italiana sarà intrapresa una costante ed incisiva attività di informazione e di sensibilizzazione/promozione che evidenzi le differenze di carattere qualitativo dei prodotti italiani, insistendo in particolare per le produzioni agroalimentari sugli aspetti nutrizionali e salutistici legati all’italian lifestyle”. D’accordo, facciamo conoscere i “nostri” prodotti rispetto a quelli che si richiamano a.., perché sicuramente sono di migliore qualità, come il Parmigiano rispetto al Parmesan; ma bollare tutto il tema dell’Italian sounding come frode o fake significa non capire cosa sta accadendo in giro per il mondo. E non serve molto, basta viaggiare un po’, andare nei ristoranti, entrare dentro Starbucks, Caffè Nero o altro. Pensiamo alla storia dei Lioni Latticini: i fratelli Salzarulo dopo il terremoto del 1980 in Irpinia si ritrovano (il primo era partito vent’anni prima) a New York e decidono di continuare a fare quello che sapevano fare: la mozzarella. In pochi anni diventano tra i più importanti produttori americani di latticini: burrata, mozzarella di bufala, ricotta, scamorza, mozzarella in tutti i formati, e addirittura l’italica mozzarella roll con pepperoni. Sulle confezioni appare il tricolore. Cosa stanno vendendo? Sono i nemici del made in Italy? Vanno contrastati? Fanno un prodotto veramente peggiore delle “nostre” mozzarelle? La globalizzazione è questo. È fatta da fenomeni nuovi che devono far ripensare alle politiche da adottare. Lo so, non è facile, ma non dobbiamo tapparci gli occhi.
D’altra parte anche noi ci appropriamo di qualcosa degli “altri”. Napapijri, impresa di abbigliamento nata in Val d’Aosta, utilizza come logo la bandiera norvegese. Chissà cosa ne pensano i difensori del made in Norway. Da italiana, nel 2004, diventa americana. Coloro che acquistano, cosa pensano di comprare: italiano, norvegese, americano? Quello che conta, alla fine, è il prodotto e la percezione che gli attribuisce il consumatore. È il mercato che costruisce la sua strada da solo. Attenzione, non siamo che all’inizio di una grande svolta.