In Italia studiare di più non premia. Avere una formazione migliore non garantisce infatti una corrispondente possibilità di compensi più generosi. Ciò che invece fa la differenza è il genere. Sì, essere femmina o maschio fa la differenza. Una tendenza che, per quanto negli ultimi anni sia andata diminuendo, è ancora presente in modo massiccio e non riguarda solo l’Italia. La disparità di genere è, infatti, una forbice aperta a livello globale. Il divario dei compensi tra uomo e donna è stato studiato negli ultimi dieci anni dal World Economic Forum che, nel suo rapporto annuale Global Gender Gap Report ha preso in esame un campione di 145 paesi del mondo. I parametri usati dal rapporto sono quelli relativi all’economia, alla politica, alla salute e all’istruzione. All’estremità inferiore c’è il punto 0 che corrisponde ad una disuguaglianza totale tra uomini e donne. Il punto 1 invece identifica una perfetta parità. L’Italia ha fatto passi in avanti rispetto all’anno scorso riuscendo a passare dalla sessantanovesima posizione alla quarantunesima. Tuttavia osservando il cambiamento generale del nostro paese si nota che dal 2006 a ora si è avuto un moto decisamente altalenante: nel 2006 eravamo a quota 77 mentre l’anno successivo siamo scesi a 84 per poi risalire nuovamente. Ma il dato sconcertante è un altro: secondo stime statistiche, perché si raggiunga una parità totale tra i sessi occorreranno, se il trend complessivo rimarrà invariato, ancora 118 anni. Ci troviamo ad avere, dati alla mano, la consapevolezza che molte future generazioni di donne continueranno a guadagnare, ad esempio, meno degli uomini.
Sebbene infatti la posizione dell’Italia sia migliorata, vi sono ancora profonde disuguaglianze. Se da una parte infatti a livello educativo le donne hanno risultati migliori, questo non si traduce in una parità lavorativo-occupazionale. Le donne lavoratrici e laureate in Italia sono molto più dei maschi: ci sono 3,5 milioni di donne contro 2,9 milioni di uomini. Il dato fa risaltare maggiormente il gap lavorativo: se infatti un uomo laureato raggiunge in media i 48mila euro lordi all’anno, una donna si ferma a quota 36mila.
Gli uomini in Italia guadagnano in media il 7,2% in più rispetto alle donne. Ma non è tutto. Andando ad analizzare nel dettaglio i dati si vede come lo squilibrio sia accentuato circa le posizioni ricoperte dalle donne. Se da una parte le donne ai vertici di aziende sono passate dal 2004 al 2013 dal 24% al 29%, dall’altra resta significativo che il 71% dei dirigenti e il 58% dei quadri siano maschi. Davanti a noi, entro la posizione numero 20, si trovano tutte le grandi potenze europee mentre, andando oltreoceano, gli Stati Uniti raggiungono quota 28.
Negli Stati Uniti, tuttavia, a differenza dell’Italia c’è una netta predominanza maschile a livello politico. Ma a livello economico e di opportunità lavorative l’angolo del divario diminuisce: se l’Italia ha un punteggio di 0.36 alla voce “legislator, senior officials and managers”, ad esempio, gli USA ottengono lo 0.77; a proposito del “estimated earned income” l’Italia ha un punteggio di 0.59 mentre gli Stati Uniti hanno 1, ovvero la parità totale tra i sessi.
Numeri a parte, il problema che emerge è che il gap verrà colmato in un periodo estremamente lungo. Alla base di questo scarto tra uomini e donne vi è anche e soprattutto un problema culturale. Tradizionalmente le donne sono state relegate in una posizione subordinata rispetto agli uomini e questo ha comportato differenti trattamenti. Ad esempio a livello educativo, nella possibilità storica di accesso all’istruzione legata al ruolo che le donne hanno giocato fino a pochi anni fa all’interno della società. Se passi in avanti, sebbene piccoli, sono stati fatti negli ultimi dieci anni, occorre domandarsi due cose. Innanzitutto come colmare il gap anche a livello culturale e, in secondo luogo, come accelerare i tempi. È davvero necessario aspettare 118 anni per avere una parità di genere o si può cambiare in modo più rapido? Mark Weinberger, EY Global Chairman e CEO, è convinto che il cambiamento non possa prescindere da alcuni punti chiave. Innanzitutto un cambiamento culturale “non può essere un’iniziativa estranea ad un’azienda. Anzi, deve essere profondamente radicata nel modo di pensare il lavoro all’interno di essa. Ciò significa – continua Mark Weinberger – offrire una reale flessibilità sul posto di lavoro come ad esempio i periodi di maternità e paternità. Ma non basta fornirli, serve anche che i dipendenti siano incoraggiati ad usarli. E non deve esserci neanche un discrimine tra uomini e donne a riguardo. Le donne non vogliono trattamenti speciali e gli uomini non vogliono essere trattati diversamente dalle loro colleghe”. “Occorre inoltre – precisa Weinberger – costruire una rete di sostegno lavorativo per le donne che tuteli il mondo del lavoro a tutti i livelli. Se non ci sono sicurezze e parità alla base difficilmente, infatti, una donna potrà raggiungere posizioni di prestigio a livello professionale”.