E' dall'unità d'Italia che il territorio del nostro Paese si è via via caratterizzato in due realtà socio-economiche diseguali e disunite: il Centro Nord e il Mezzogiorno. Queste due Italia restano sostanzialmente divise per condizione economica, sociale e culturale. Le ragioni sono storiche: l'Italia è nata male, ma è cresciuta peggio.
Vale la pena di ricordare che sino a quarant'anni fa esistevano le “gabbie salariali”. Per chi è nato dopo ricordiamo che le “gabbie” avevano lo scopo, codificato, di stabilire che il lavoro in Italia era ripagato in maniera differenziata: di più al Centro Nord e meno al Sud. Il che era la rappresentazione più evidente che i cittadini italiani non avevano parità di diritti e di dignità. Quelli del Centro Nord valevano di più di quelli del Meridione. Questa specificità tutta italiana ancora dopo oltre un secolo e mezzo non è cambiata in nulla. Per rendersene conto diamo uno sguardo ai dati forniti da due fonti autorevoli: la SVIMEZ (Associazione per Lo Sviluppo Industriale nel Mezzogiorno) e l'ISTAT sulle diseguaglianze tra le diverse aree del Paese.
Partiamo dal Rapporto SVIMEZ 2015 e, segnatamente dal PIL, cioè dal Prodotto Interno Lordo delle due macro zone italiane. Nel periodo della crisi economico-finanziaria,2008-2014 il calo della ricchezza nel Mezzogiorno è stato del 13 per cento, di gran lunga superiore alla media nazionale (-8,7 per cento) e quasi doppio rispetto a quello del Centro Nord (-7,4 per cento). E proseguiamo con il reddito, per confermare quanto in premessa si faceva riferimento alle “gabbie salariali”: nel Mezzogiorno il 62 per cento dei cittadini ha un reddito inferiore o pari al 40 per cento del reddito medio nazionale.
Un altro indicatore del divario sempre più ampio che caratterizza le due Italie è quello dei consumi. Dal 2008 al 2014 il Mezzogiorno ha fatto registrare una caduta dei consumi del 13,2 per cento, mentre nel resto del Paese il calo è stato inferiore alla metà, meno 5,5 per cento. Nell'ultimo anno, addirittura, si registrano indici opposti: al Sud – 0,8 al Centro Nord + 0,3 per cento.
Ma l'aspetto più preoccupante è la riduzione della spesa per l'acquisto dei beni alimentari. Questo, infatti, è l'indicatore principale della soglia di povertà relativa, e prima di dettagliare sull'argomento i dati recentissimi dell'ISTAT, è il caso di rilevare l'enorme differenza verificatasi nell'ultimo anno: al Sud la spesa per gli acquisti di alimentari ha fatto registrare un calo dello 0,3 per cento mentre al Centro Nord si è registrato un aumento dell'1 per cento. Secondo questi elementi, se ne ricava che i poveri in Italia sono 7 milioni di cittadini e di questi 4 milioni in povertà assoluta, con la notazione non secondaria che nel Mezzogiorno la povertà assoluta è doppia rispetto al resto del Paese: in pratica il 5,7 per cento delle famiglie italiane, corrispondenti a 4 milioni 102 mila persone, equivalenti al 6,8 per cento della popolazione. La ripartizione territoriale per macro aree vede la povertà assoluta suddivisa per il 4,2 per cento al Nord, per il 4,8 per cento al Centro e per l'8,6 per cento al Sud.
Per concludere questa drammatica elencazione di cifre e percentuali, torniamo al Rapporto SVIMEZ 2015 e passiamo in rassegna l'ultimo indicatore che riguarda gli investimenti. Nel periodo della crisi la flessione degli investimenti ha caratterizzato tutto il territorio nazionale, ma il Sud ne ha registrato il maggior peso. Nel periodo 2008-2014 gli investimenti fissi lordi nel Mezzogiorno hanno subito un calo vertiginoso: 11 punti percentuali in meno rispetto al resto d'Italia: dal 38,1 per cento si è passati al 27 per cento. Solo nell'ultimo anno al Sud si è verificato un calo del 4 per cento.
Nel settore dell'industria, poi, si è verificato un vero e proprio precipizio, con – 59,3 per cento: cifra tre volte superiore rispetto a Centro Nord, che registra un calo del 7,1 per cento. Questa caduta degli investimenti industriali nel periodo della crisi, peraltro, si sommava al calo registrato al Sud nel periodo compreso tra il 2001 e il 2007: – 5,7 per cento (mentre il Centro Nord Italia, nello stesso periodo, ha fatto un andamento positivo: + 8,3.
I dati economici e le loro conseguenze sociali che abbiamo sinteticamente riportato confermano ancora una volta che l'Italia è una non-nazione e si 'arrabbatta' nel contesto internazionale in maniera assolutamente non credibile. Non è nemmeno il caso di raffrontarla alla Germania, la quale, nonostante tutti i suoi difetti egemonici, in pochi anni è riuscita a unificare il Paese divenuto enormemente diseguale a seguito della divisione Est/Ovest. E' stata sufficiente questa operazione, voluta dall'ex cancelliere Helmut Koll, per rendere ogni tedesco orgoglioso di appartenere a quel Paese.
L'Italia è, come già accennato, una non-nazione e si caratterizza per un aggregato forzatamente unito, ma diseguale. Non si capisce come stia ancora unità nonostante 150 anni di storia nazionale dimostrino che l'unità non c'è mai stata e, per quanto si intravede nel futuro, non lo sarà ancora per lungo tempo.
Per concludere, una notazione sulla realtà siciliana. Ha ragione il professore Massimo Costa a battersi per l'indipendenza della Sicilia come nazione autonoma. Riuscire in quest'intento è assai difficile se non si riesce a mobilitare tutta la pubblica opinione siciliana. Finché il dibattito sull'argomento sarà appannaggio di alcune avanguardie elitarie questo processo sarà difficile avviarlo. Infatti, storicamente quella che oggi viene definita l'Autonomia speciale, a fasi alterne, nella storia dell'Isola conta ormai più di duecento anni, ma l'esito è sempre stato lo stesso. Anche oggi il dibattito politico ha all'ordine del giorno l'abolizione delle autonomie speciali. Ed in Sicilia l'Autonomia non è sentita dal popolo come una sua conquista. E le classi dirigenti che, purtroppo, esprimono la volontà popolare, per loro natura e storia hanno sempre avuto il conio dell'ascarismo (leggere, politici siciliani venduti alla politica centralista).
Se guardiamo all'attuale quadro politico notiamo che la Sicilia esprime i renziani, i cuperliani, i berlusconiani, i dipietristi, il residuo dei casiniani e via elencando i riferimenti a figure e a figuri anche poco presentabili del proscenio nazionale. Non ce n'è nessuno che si qualifichi come siciliano e basta. E ne abbiamo avuto di leader – o pseudo tali – che si qualificavano come autonomisti, martellavano le targhe dedicate a Garibaldi, ma si alleavano talvolta con l'onorevole Storace e talaltra con Berlusconi. Questa è purtroppo la classe dirigente siciliana, da sempre. Tutti questi governanti non si sono mai resi conto – o ci facevano – di essere commissariati dal governo nazionale per controllarne l'operato, attraverso la gestione delle risorse finanziarie di cui la Sicilia ha avuto assegnate, ma non ne ha mai potuto disporre liberamente.
Per ultimo è arrivato il governo di Rosario Crocetta, del quale siamo alla quarta edizione – e con tutta probabilità non sarà l'ultima, visto il modo assai travagliato con il quale si tenta di farlo materializzare – ma che fin dal suo nascere, e sono trascorsi ormai tre anni, è stato sempre 'commissariato' attraverso la nomina di assessori all'Economia voluti dal Partito Democratico centrale. Prima c'è stato l'assessore Luca Bianchi e poi l'attuale assessore Alessandro Baccei. Costoro hanno avuto assegnato il compito di dirottare a Roma le disponibilità finanziarie regionali, al punto di non potere approvare il Bilancio finanziario per il prossimo anno, e per poterlo fare debbono andare a questuare un contributo al governo centrale.
Nel corso della sua esperienza di governatore-ascaro il presidente Rosario Crocetta è addirittura arrivato a rinunciare ad una caterva di miliardi spettanti alla Sicilia frutto di sentenze della Corte Costituzionale a seguito di controversie risoltesi in favore della Sicilia. Uno scandalo elefantiaco che il Parlamento siciliano ha assorbito interamente, piuttosto che mandare a casa immediatamente l'autore del misfatto. Né si è sollevata alcuna voce di protesta o di critica della cosiddetta società civile. Una classe dirigente più ascara di così è difficile trovarla in tutto il mondo. Per queste ragioni la prospettiva indicata da Sicilia Nazione appare molto ardua, anche se viene sollecitata da più parti e da voci autorevoli di oltre Atlantico.
* Come ricordiamo sempre quando presentiamo Riccardo Gueci, ribadiamo che l'autore di questo articolo è un dirigente pubblico in pensione che è cresciuto nel vecchio Pci. Riccardo Gueci è sempre stato comunista e lo è tutt'ora. Per noi si occupa di commentare i fatti di politica internazionale e di economia. Oggi affronta un tema di economia, ma con un taglio meridionalista, visto che sofferma la propria attenzione sul futuro del Sud e, in particolare, sul futuro della Sicilia.
Di fatto, è un argomento che segue da anni: perché di questo si occupava quando c'era il vecchio Pci. La novità, che ci ha stupito un po', è che oggi, alla luce anche dei 'capitomboli' del PD renziano e dei dati ufficiali della SVIMEZ – che Gueci cita con puntualità – ha maturato un'idea indipendentista. E per uno come lui, che ha militato nel Pci di Berlinguer e di Ingrao, non è cosa da poco.