Anche più della crisi greca, ciò che ha tenuto con il fiato sospeso borse e mercati globali è stato, questa settimana, lo scoppio della bolla finanziaria cinese. La borsa di Shanghai, cresciuta negli ultimi dodici mesi del 150%, in caduta dal 12 giugno, ha improvvisamente accennato al crollo, documentando perdite superiori al 30% e bruciando in pochi giorni più di 3mila miliardi di dollari, dieci volte il debito greco e superiore alla capitalizzazione di mercati finanziari quali Spagna o India. Neppure il rimbalzo dell’8 luglio, con il rotondo 5,76% di aumento nei listini, ha migliorato l’umore di operatori e osservatori, tutti in preda al panico.
Negli stessi giorni, qualche storico dalla memoria lunga, celebrava l’ottocentenario della conquista mongola di Pechino: dopo quattro anni di guerra contro l’imperatore Wei, il gran khan Gengis nel 1215 aveva preso la città, trucidandone gli abitanti e lasciando dietro di sé tifo e malattie endemiche. Su quelle rovine sarebbe nata la nuova Pechino, concepita dall’imperatore Yong Le, della dinastia Ming, come un unicum armonico con il cosmo e massima glorificazione del suo impero. Si sarebbe comunque prodotto, tra il XIII e il XIV secolo, il lungo e misterioso declino cinese, con l’Europa che, alla metà del quattrocento, avrebbe ripreso la leadership di EurAsia. La Cina si sarebbe isolata dal resto del mondo, la sua grandiosa flotta sarebbe stata drasticamente ridimensionata, il commercio con l’estero esorcizzato come fonte di sospetto e rischi. Si sarebbe arrivati, nel 1551, a proibire i viaggi di altura (il decreto imperiale avrebbe vietato l’uso di navi multialbero) e la Cina si sarebbe trovata disarmata dinnanzi all’aggressivo espansionismo europeo che si sarebbe poi tramutato in colonie e possedimenti, e nel mefitico regime delle concessioni. Non solo: non avrebbe introiettato le invenzioni e le tecniche che l’Europa iniziava a produrre nel suo illuminato anche se breve rinascimento, condannandosi ad ulteriore arretratezza, e ad un isolamento dalle nuove tecnologie che avrebbe saputo superare soltanto nell’ultimo scorcio del Novecento. Quando il militarismo razzista giapponese sarebbe calato dalla Manciuria a martirizzare la Cina, avrebbe trovato un paese fuori dalla storia, rinserrato nelle sue tradizioni e ne avrebbe potuto fare strame se pure con difficoltà.
I lunghi secoli di appannamento che tanto sono costati alla Cina e ai cinesi, sarebbero da attribuire, secondo molti storici, al colpo inferto dalle orde mongole ad una civiltà già molto avanzata e organizzata. La metafora del crollo di borsa letale quanto il ferro e fuoco del grande e crudele capo mongolo, ardita e stimolante, merita tuttavia qualche osservazione.
Il mondo globale non si basa sul principio della sconfitta del competitor: nessuno gioirebbe per l’eventuale crollo cinese, anzi. Per quanto si possa avversare il dispotismo comunista orientale, la stabilità di Pechino è nell’interesse di tutti. I mongoli esprimevano una società arcaica e nomadica, la cui economia era fondata sul valore che il khan attribuiva a oro argento e pietre preziose, che tesaurizzava cedendo in cambio valori cartacei. Noi apparteniamo ad una società internazionale stanziale, fondata sul patto di fiducia che garantisce la circolazione e lo scambio continui di azioni, obbligazioni, valute, titoli di credito i più disparati. E’ un mondo dove l’interesse comune prevale su quello particolare, e la fiducia va preservata ad ogni costo. Il che spiega da un lato il pronto intervento delle autorità di Shanghai a difesa della loro borsa, e dall’altro l’attenzione e partecipazione con la quale l’Occidente sta seguendo l’evoluzione della bolla finanziaria cinese.