"Più 130 mila posti di lavoro nel 2014, bene ma non basta. Ora al lavoro per i provvedimenti su scuola e banda ultra larga", diceva su Twitter il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non più tardi di qualche settimana fa. Ogni giorno che passa, però, appare sempre più evidente che, quanto a numeri, il nuovo che avanza ne spara di grossi, anzi di troppo grossi. Al punto che molti si sono chiesti dove li vada a prendere.
A marzo, dopo la sua “sparata” di più di centotrentamila nuovi posti di lavoro, tecnici del governo e Istat si erano precipitati a smentire e a rettificare o giustificare. C’era chi diceva che il dato era solo quello mensile, altri che, forse, era ancora troppo presto per vedere i risultati delle misure imposte dal governo a colpi di fiducia (come il Jobs Act), altri ancora che si era trattato di un misunderstanding (quando qualcosa non funziona, metterci un inglesismo fa sembrare più professionali e distrae la gente dal problema vero…).
Oggi i dati ufficiali dell’Istat hanno riportato gli stessi numeri (o quasi) riferiti dal premier: 138.000 posti di lavoro. Bene. Anzi, no: male. Questo numero non è riferito ai “nuovi posti di lavoro”, ma al numero dei “nuovi disoccupati”, ovvero di quelli che il posto di lavoro lo hanno perso o non lo hanno trovato. Secondo i dati Istat, negli ultimi dodici mesi il numero dei disoccupati è cresciuto del 4,4 per cento (come si diceva 138.000 persone) e la disoccupazione è aumentata, su base annua, dello 0,5 per cento.
E gli occupati? Niente nuovi posti di lavoro. Nonostante le promesse fatte dal nuovo che avanza con il Jobs Act, gli occupati sono diminuiti: dopo il calo del mese di febbraio, nell’ultimo mese gli occupati sono calati ancora (dello 0,3 per cento). In un solo mese sono stati persi ben 59.000 posti di lavoro. Anche su base annua i risultati sono negativi: rispetto a marzo 2014, l'occupazione è in calo dello 0,3% (-70 mila) e il tasso di occupazione di 0,1 punti.
A ben guardare, ad essere preoccupante è tutto il comparto. Aumenta il numero di famiglie in cui è la donna l'unica ad essere occupata. Segno, questo, che la crisi non è passata: trovare lavoro è sempre più difficile. Una volta che si perde il proprio posto di lavoro, trovarne un altro è quasi impossibile. Per molti la disoccupazione è diventata una trappola da cui è difficile venire fuori. Non a caso, sempre secondo i dati Istat, chi cerca un posto di lavoro lo sta facendo, in media, da 24,6 mesi, da più di due anni. E pensare che, fino non molto tempo fa, l’Unione europea usava questo lasso di tempo (due anni) per classificare i disoccupati di lunga durata (ovvero quelli che, dopo aver perso il posto, hanno maggiori difficoltà a trovare lavoro a causa, ad esempio, di conoscenza obsolete o di cambiamenti del loro settore occupazionale o per mancanza di riqualificazione). Già allora era chiaro che più si protrae la durata della ricerca del posto di lavoro e minori sono le probabilità di trovarlo.
E sempre che a cercare lavoro non sia un giovane: in questo caso oggi, in Italia, la ricerca del primo impiego dura mediamente 34 mesi. Altro che bambaccioni, come li definì l’allora ministro Tommaso Padoa Schioppa, dando prova della propria sensibilità e conoscenza della materia. Altro che sfigati, come chiamò gli studenti fuori corso il viceministro Michel Martone. Altro che fannulloni, come li definì Brunetta. O schizzinosi, come li definì la Fornero. La verità è che, in Italia, il 78% dei lavori si trova per “segnalazione” (dato Eurostat riportato anche su “Esame Avvocato: Abilitazione col trucco” di Antonio Giangrande). Figli di banchieri, professori universitari, rettori, presidenti di Cda, prefetti, manager pubblici, ministri, beh, loro il lavoro lo trovano subito e ben retribuito. Per tutti gli altri, la maggior parte, a meno che non trovino la giusta raccomandazione, è un calvario fatto di concorsi, colloqui e proposte indecenti (recentemente ad alcuni specializzati è stato offerto di lavorare gratis…).
Per i giovani, il lavoro non c’è. L’ennesima riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che i governi di quelli che definiscono bambaccioni, sfigati, schizzinosi e fannulloni i giovani disoccupati, non sono stati capaci di mantenere le promesse fatte agli italiani.
E se ancora ci fosse bisogno di una prova di ciò, questa viene dall’ultimo dato diffuso dall’Istat, quello sull’età degli occupati: l’unica fascia d’età che ha mostrato una crescita dell’occupazione, è quella degli over 55, gli anziani vicini alla pensione.
Numeri che ognuno può leggere come crede. Ad esempio, Renzi ha parlato di successo delle misure imposte dal governo, dato che nei primi tre mesi sono stati firmati centinaia di contratti a tempo indeterminato. Dimentica di dire, però, che, quasi sempre, si è trattato di una semplice stabilizzazione di contratti a scadenza (anche le assunzioni per la Buona Scuola dovrebbero essere così).
Il totale, però, non mente mai: a dicembre i posti di lavoro erano 22 milioni 306 mila, a fine marzo si erano ridotti a poco più di 22 milioni. In tre mesi sono sparite altre decine di migliaia di posti di lavoro. E i disoccupati sono arrivati a 3,5 milioni.
Una situazione, quella della perdita di posti di lavoro, che, se già grave in Italia, è ben più tragica nel Mezzogiorno. A farlo notare è il presidente dell'Istat, Giorgio Alleva, che, nella sintesi del ‘Rapporto annuale 2015’, ha detto: "Il Mezzogiorno è da molti anni assente dalle priorità di policy. La dimensione del problema è tale che, se non si recupera il Mezzogiorno alla dimensioni di crescita e di sviluppo su cui si sta avviando il resto del Paese, sviluppo e crescita non potranno che essere penalizzati rispetto agli altri Paesi". Più chiaro di così…
Il governo, fino ad ora, non ha fatto niente di concerto per il Mezzogiorno e, fino a quando il divario tra Nord e Sud del paese continuerà a crescere, per l’Italia non ci saranno speranze di ripresa. E se la situazione è grave per il Mezzogiorno, è terrificante per la Sicilia. Non potrà esserci “Italia” fino a quando la percentuale di occupati, in “Sicilia”, sarà di solo del 39 per cento (lavorano meno di quattro siciliani su dieci), mentre nel resto del Paese, a lavorare è più del 55 per cento della forza lavoro (dati Istat relativi al 2014).
A poco servirà “dare i numeri”, se poi questi numeri non corrisponderanno a realtà. Servirà solo a dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, che le politiche imposte dal governo, spesso a colpi di voti di fiducia, non sono servite a far uscire il Paese dalla crisi. Sono servite solo a creare 138.000 posti di lavoro … in meno.
Foto tratta da confesercentipalermo.it
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