Spesso ci si domanda come mai, in Italia, e ancora di più in Sicilia, molte opere pubbliche non vengono realizzate e, anche quando vengono realizzate, il loro costo e la durata dei lavori sono palesemente esagerati. Come è possibile che l’Italia viaggi a due velocità sulle autostrade, sui treni e in quasi tutti i campi della pubblica amministrazione?
La causa forse è da ricercare nel modo in cui vengono gestiti gli appalti. E nei “numeri” di questi lavori. Secondo il presidente nazionale dell’Ance (Associazione nazionale costruttori edili), Paolo Buzzetti, "i dati sono il simbolo dell’arretratezza infrastrutturale della Sicilia rispetto al resto del Paese e dimostrano l’insensibilità della classe politica e della burocrazia riguardo alla necessità di mettere in sicurezza il territorio e gli edifici scolastici, di recuperare e valorizzare i beni culturali e di modernizzare i sistemi di trasporto e i tessuti urbani. L’attuazione immediata del piano avrebbe una doppia funzione: intervenire in senso anticiclico rispetto alla crisi economica e del settore edile, e migliorare la qualità di vita dei cittadini". Fondi che non arrivano, gare “truccate”, costi per la realizzazione delle opere che lievitano in modo spropositato, lavori fatti male, infiltrazioni mafiose e molto altro. E questo sempre che, alla fine, i lavori vengano completati.
Stando ai dati diffusi dall'Osservatorio di Ance Sicilia, basato sui bandi pubblicati sulla Gazzetta ufficiale, nel 2014, sono state bandite gare per soli 356,4 milioni di euro: il venti per cento della somma stanziata nel 2007 (1 miliardo e 269 milioni di euro), data di inizio della crisi.
Un calo dell’80 per cento delle risorse che ha lasciato a bocca asciutta quasi tutte le imprese del settore edile (e dei settori correlati) della Sicilia. Sì, perché, anche se pochi ne parlano, alla fine, a godere di questi appalti non sono imprese siciliane: spesso le gare per gli appalti vengono vinte da aziende del Nord Italia, le uniche che possono permettersi ribassi mostruosi che tagliano fuori le piccole e medie imprese locali. Come ha denunciato il presidente di Ance Sicilia, Salvo Ferlito: “Tutto ciò evidentemente favorisce la concorrenza sleale di imprese che operano nel torbido e dotate di disponibilità economiche tali da sopperire alle sicure perdite: si pensi che la percentuale massima di spese generali e utile d’impresa prevista dal prezziario regionale è del 25% e oltre questo limite di sconto si è normalmente in perdita”. Le poche gare bandite vengono aggiudicate con ribassi che ormai si attestano al 36-37%; va ancora peggio nelle gare di progettazione, perché, secondo Ferlito, “l'attuale sistema normativo crea una corsa al ribasso d'asta verso un'unica direzione, statisticamente prevedibile”.
Secondo i dati dell'Ance, "sul totale degli oltre cinquemila progetti individuati nel Paese per complessivi 10 miliardi di euro, la Sicilia si distingue perché i suoi 476 interventi rappresentano il 9% del totale per numero, ma il 40% per importi”. Un problema, quello degli appalti pubblici, che, in Sicilia, risale a molti decenni fa. Il legame tra appalti, mafia e delinquenza in Sicilia, divenne evidente agli inizi degli anni ’50 del secolo passato. Il Prg (il Piano regolatore generale) e la città furono devastati con centinaia di emendamenti, molti dei quali permisero a politici e mafiosi di vendere aree edificabili ad imprese edili. Secondo alcune stime, in quel periodo, quasi un terzo (1600) delle 4.000 licenze edilizie rilasciate dal Comune di Palermo sarebbero state concesse a prestanome di boss mafiosi. Bastarono pochi anni per rendersi conto che Palermo era solo una goccia nel mare delle infiltrazioni mafiose negli appalti in Sicilia.
Tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 del secolo passato ad occuparsi del problema furono anche Giovanni Falcone e il colonnello dei Carabinieri, Mario Mori, che, nel 1991, depositarono l’informativa ‘Mafia e Appalti’, un dossier in cui erano riportate connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi nel settore delle concessioni per le opere pubbliche. Dalle indagini venne fuori anche il problema del “cemento depotenziato” negli appalti in Sicilia (e non solo): ancora oggi, sono decine le strade, i ponti, i viadotti, le ferrovie, le gallerie, le scuole, gli ospedali e anche parti degli aeroporti di Punta Raisi e di Trapani Birgi ad essere a rischio di crolli perché costruiti con troppo poco cemento e troppa sabbia. Un sistema semplice per favorire alcune imprese che, grazie a ribassi irraggiungibili e alla connivenza di tecnici e politici, riuscivano ad accaparrarsi la maggior parte degli appalti. Ribassi poi “compensati” dalle minori spese sostenute per la realizzazione dei lavori o da rialzi delle spese in corso d’opera.
Gli esempi di questo modo di gestire i pubblici appalti sono in buona parte ancora da scoprire: lo scorso luglio, in provincia di Agrigento, la carreggiata di un ponte si è piegata in basso crollando da un’altezza di quattro metri. E a gennaio di quest’anno, sulla statale Palermo-Agrigento, è crollato il viadotto Scorciavacche. Il magistrato della Procura di Termini Imerese ha aperto un’indagine per crollo colposo nei confronti del capo progetto e del direttore tecnico, oltre che della ditta appaltatrice per “difetto di esecuzione”. Ma prima che la sua indagine prendesse forma, ad aprile, si è verificato un altro cedimento: quello tra gli svincoli di Scillato e Tremonzelli sull’autostrada Palermo-Catania. Questa volta ad essere chiamato in causa è stato il direttore generale dell'Anas, Pietro Ciucci (che si è dimesso).
Sono molti gli appalti sui quali la mafia, dopo mezzo secolo di indagini e casi eclatanti, continua ad affondare le mani. Nel 2013, a Palermo, la Guardia di Finanza ha sequestrato diverse decine di milioni di euro alla mafia per appalti truccati: dalle indagini sono emerse infiltrazioni di "Cosa Nostra" negli appalti per la realizzazione degli impianti per la metanizzazione in Sicilia fra il 1980 e il 1990. Grazie alla benevolenza di soggetti e funzionari pubblici, Cosa nostra sarebbe riuscita ad ottenere decine e decine di concessioni per la metanizzazione di Comuni della Sicilia e dell'Abruzzo (lavori spesso subappaltati ad imprese direttamente riconducibili alla criminalità organizzata). Infiltrazioni mafiose (e non solo quelle di Cosa nostra) che negli anni si sono estese a macchia d’olio in altre parti d’Italia: l’inchiesta ‘Mafia Capitale’ ha messo in risalto gli stretti rapporti che esisterebbero tra politica, appalti, subappalti e i responsabili di alcune delle maggiori aziende del settore, dalla realizzazione di opere pubbliche alla gestione dei rifiuti, dall’energia al settore idrico.
Crolli, indagini, inchieste e processi: tutto dimostra che il modo di gestire gli appalti, in Italia e, in modo particolare, in Sicilia non funziona (a sinistra, un'immagine del porto di Castellammare del golfo: foto tratta da algamah.it). Un sistema che spesso vede i lavori ritardare di anni e i prezzi lievitare in modo inverosimile. A questo si aggiunge la precisa volontà politica del governo nazionale di non favorire lo sviluppo delle infrastrutture del Meridione. Il “nuovo che avanza” non ha fatto niente per mandare avanti il Sud d’Italia: da un lato ha riempito le prime pagine dei giornali di promesse ("Se riparte il Sud, riparte il Paese. Questa è la priorità"), dall’altro, però, ha dimostrato con i fatti che per il governo Renzi le “priorità” sono altre. Alla fine dello scorso anno, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (presieduto proprio da lui), ha lasciato la Sicilia e molte delle Regioni del Meridione d’Italia completamente prive di stanziamenti per la realizzazione di grandi opere.
Questo sempre che le gare per gli appalti si celebrino. Sempre più spesso, infatti, le opere pubbliche non vengono realizzate facendo ricorso ad appalti pubblici. Nelle scorse settimane l’allarme è stato lanciato da Raffaele Cantone, alla guida dell’Autorità nazionale anticorruzione: ogni dieci contratti pubblici, solo quattro vengono affidati facendo ricorso a regolari gare d’appalto. Il restante 60% (per un importo complessivo pari al 34,66% dell’importo complessivo degli appalti), viene affidato senza alcuna gara. Una “criticità” che ha serie conseguenze rilevantissime sulle ‘casse’ dello Stato e delle amministrazioni locali. Ma anche sulle imprese presenti sul territorio.
Tutti problemi ben noti al governo e al Parlamento: il 14 luglio dello scorso anno, a Roma, si è svolto un convegno, organizzato dalle Commissioni Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici e Giustizia della Camera dei Deputati, sulla cui brochure si legge: “I grandi appalti italiani sono stati aggiudicati sulla scorta di norme eccezionali e derogatorie, in nome delle emergenze e dei grandi eventi. E, laddove emergenze e grandi eventi hanno lasciato spazio ad eccessive discrezionalità e trattative private, gli affidamenti degli appalti sono stati troppo spesso occasione di corruttele e associazioni criminali, e i costi degli appalti sono enormemente lievitati, a carico inevitabilmente dei cittadini”.
Le conseguenze del modo di gestire gli appalti sono evidenti e ben chiare a tutti: la Sicilia, senza le infrastrutture di cui ha estremo bisogno, non riuscirà mai a colmare il gap che la separa da altre Regioni d’Italia. Appalti che potrebbero essere utili a generare economie sul territorio: secondo studi recenti, per ogni miliardo di euro speso in infrastrutture, si generano 17mila posti di lavoro stabili. Per contro, la fase di stallo e di apatia da parte prima di tutto dei politici locali e poi dei rappresentati al Parlamento ha provocato la perdita di oltre 100mila posti di lavoro. Una ferita profonda da cui la Sicilia difficilmente potrà riprendersi.
Foto tratta da positanonews.it