C’è chi parla di uno “scippo che dura da oltre 60 anni”. C’è chi parla di “rapina legalizzata”. E c’è chi parla di “sfruttamento di stampo colonialista”. Il tema è quello dei rapporti finanziari tra lo Stato italiano e la Sicilia, Regione autonoma, simile, almeno sulla carta, a uno Stato degli USA. Tema caldissimo in questi giorni in cui la Regione è alle prese con una crisi finanziaria devastante che rischia di generare una vera e propria catastrofe sociale. Una crisi che viene imputata, in larga parte, al Governo nazionale e alle sue politiche economiche concordate con Berlino, che hanno portato a tagli draconiani nei trasferimenti di risorse e a prelievi forzosi dal bilancio regionale. Si stima che, negli ultimi anni, Roma abbia fagocitato dalle finanze siciliane oltre cinque miliardi di euro per fare quadrare i conti pubblici nazionali ed europei.
In questo clima di desolante povertà indotta dall’alto, in Sicilia cresce il sentimento anti-italiano (secondo un recente sondaggio pubblicato da un quotidiano nazionale, il 44% dei siciliani vorrebbe l’indipendenza) ed aumenta la consapevolezza di un rapporto Stato-Regione del tutto squilibrato. La Sicilia, come già accennato, è una Regione Autonoma, a Statuto Speciale. Una Autonomia che, però, a dispetto di una pubblicistica intrisa di pregiudizi, non è mai stata applicata nelle sue parti essenziali, in quelle parti che potrebbero contribuire a risollevare le sorti dei cittadini di una Regione sempre più martoriata. Il riferimento è alle norme finanziarie che prevedono, ad esempio, la territorializzazione delle imposte. Ovvero, quelle secondo cui i tributi maturati in Sicilia dovrebbero rimanere nell’Isola. Su questo tema Roma si è sempre mostrata sorda.
Ma di che cifre parliamo? Quanto vale la mancata attuazione dell’Autonomia in Sicilia? Quante sono le risorse che spetterebbero ai Siciliani secondo il dettato costituzionale (lo Statuto siciliano è parte della Costituzione) e che invece finiscono nel bilancio statale?
Di questo argomento non si parlava da tempo. Ma dinnanzi a Governi nazionali che stanno dando il colpo di grazia ai siciliani, come ha spiegato sulla VOCE di New York l’economista siciliano Massimo Costa, ecco rifiorire le inchieste e gli studi sul tema.
Recentemente, il Presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Giovanni Ardizzone, ha promosso un incontro con i parlamentari nazionali eletti in Sicilia per sensibilizzarli sul tema (impresa ardua, visto che nella maggior parte dei casi rispondono, in stile ascaro, alle segreterie romane). Nel corso di questo incontro i tecnici del Parlamento siciliano hanno quantificato in otto miliardi di euro le risorse che il Governo nazionale trattiene ogni anno e che invece spetterebbero alla Sicilia.
Una cifra che ha fatto molto rumore se si considera che, in merito ai conti pubblici siciliani, si parla di un buco che va tra i 5 e i 7 miliardi di euro. Un buco che sarebbe automaticamente ‘riempito’ se venissero riconosciuti alla Regione i suoi diritti costituzionali.
Una cifra al ribasso, secondo molti esperti (tra questi, il già citato Massimo Costa, docente universitario di Economia all'Università di Palermo) che parlano almeno di dieci miliardi di euro l’anno. Vediamo come si arriva a questi numeri cominciando dalla mancata territorializzazione delle imposte, garantita dall'articolo 37 dello Statuto che così recita: "Per le imprese industriali e commerciali, che hanno la sede centrale fuori del territorio della Regione, ma che in essa hanno stabilimenti ed impianti, nell'accertamento dei redditi viene determinata la quota del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti medesimi".
Secondo questa norma, mancano all'appello 8 miliardi di euro l'anno: 3 miliardi di Iva, 5 miliardi di imposte sui redditi. In pratica, quando un siciliano entra in un supermercato, l'imposta sui prodotti che compra viene incassata da altri territori. La stessa cosa succede con i soldi nelle banche: i profitti derivanti dai risparmi dei siciliani, volano via dalla Sicilia. Lo stesso succede con le assicurazioni e così via. "A noi rimane, praticamente, solo l'Iva dei panellari", scherza il professore Costa.
Nel capitolo della mancata territorializzazione delle imposte sui redditi, in cui rientra la famosa questione legata alle accise sui prodotti petroliferi (in Sicilia si raffina oltre il 40% della benzina italiana, ma l’Isola guadagna solo inquinamento) mancherebbero all'appello 20 miliardi euro l'anno. Accettando il principio di compartecipazione dei tributi erariali stabilito della riforma del titolo V della Costituzione, e fissando al 25% (sempre per difetto) la quota di tributi che spetterebbero alla Sicilia, il ‘furto legalizzato’ ammonta a 5 miliardi di euro l'anno.
Per quanto riguarda la mancata attuazione dell'articolo 38 dello Statuto (Fondo di solidarietà nazionale) e 119 della Costituzione, la stima del Professore Costa, sempre al ribasso, è di 5 miliardi di euro l'anno che dovrebbero arrivare in Sicilia.
Ci sono poi le entrate parafiscali (secondo l'articolo 20 dello Statuto,bisogna devolvere tutto alla Sicilia, comprese le gestioni previdenziali): il gettito previdenziale in Sicilia è pari a otto miliardi di euro l'anno, cifra superiore di un miliardo alle pensioni pagate in Sicilia.
A tutto questo bisognerebbe aggiungere i benefici che potrebbero derivare dalla fiscalità di vantaggio (sempre negata alla Sicilia) implicita nell'articolo 36 dello Statuto: "Al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima. 2. Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei tabacchi e del lotto”.
Difficile fare una stima in questo caso. Certo è, come sottolinea il professore Costa, questo comporterebbe una immediata dislocazione di siti produttivi dal Nord alla Sicilia. Insomma, miliardo più, miliardo meno, la Sicilia regala all'Italia almeno 13 miliardi di euro l'anno. Anche se a questa somma andrebbe detratto l’ammontare dei costi che lo Stato sostiene ancora in Sicilia: 2 miliardi e 200 milioni di euro per la sanità, i costi della scuola e le competenze residue in alcuni settori. Volendo essere pessimisti, la Regione guadagnerebbe non meno di 2-3 miliardi di entrate all’anno. Cosa, questa, che consentirebbe di eliminare gli attuali buchi di bilancio provocati in buona parte da Roma.