Sono 2.829 e la Lombardia si colloca al primo posto con 609. Sono le startup italiane, un universo nuovo che in pochi anni ha preso piede anche nella penisola. Fino a pochi anni fa nessuno immaginava il futuro dell'economia italiana in mani che non fossero quelle della tradizionale impresa, oggi invece i numeri del Registro Imprese di Infocamere aprono altri scenari.
Molti giovani hanno deciso di investire in progetti e ricerca, sulla scia del grande movimento di rivoluzione tecnologica partito dall'America.
Questa settimana le startup italiane fanno tappa a New York durante il Market Accelerator for Italian Startups, iniziato lunedì e che terminerà venerdì 7 novembre. L'idea di riunire le migliori avanguardie della tecnologia italiana nella città delle mille possibilità nasce da VentureOutNY, un aggregatore di startup presenti in tutto il mondo che ha la pretesa di spostare l'ago della bilancia tecnologica dalla Silicon Valley a New York.
Perchè New York? Lo spiega VentureOutNy nel suo sito web: “Dal 2007 al 2011 il mondo dell'impresa è cresciuto de 33% a New York mentre è diminuito del 10% nella Silicon Valley”.
Il primo incontro tra le due comunità tecnologiche è stato coordinato dal fondatore di VentureOutNY Brian J. Frumberg. “Il motivo per cui abbiamo scelto di collaborare con l'Italia è perchè fa parte dei 12 ecosistemi tecnologici più importanti al mondo”.
Tanti giovani italiani sono giunti, alcuni per la prima volta, in America con tante speranze e mille sogni. Quelli che in Italia spesso non riescono a tradurre in realtà.
Tobia Aldo Loschiavo della startup WeOrder LTD con sede a Londra, ma operativa in Italia, Danimarca, Inghilterra e Brasile, ha le idee chiare sul perchè in Italia le startup non riescono a sfondare come altrove.
“Gli investimenti in Italia sono molto più limitati rispetto all'estero”, dice il giovane cofondatore della piattaforma per locali ristoranti, discoteche e pub che consente ai clienti dei locali di usare una app con cui ordinare e pagare. “Su una stessa startup o uno stesso prodotto, la valutazione cambia a seconda che l'investimento venga richiesto in Italia o all'estero, sia perchè i costi del lavoro sono diversi ma soprattutto perchè gli italiani sono meno visionari rispetto all'estero. Gli investimenti si trovano abbastanza facilmente in Danimarca, in Inghiterra e meno in Italia”.
La sua startup infatti guarda all'estero da anni e ora vuole espandersi negli Stati Uniti. Obiettivo comune di tutti giovani presenti al meeting: trovare “l'America”.
Con l'obiettivo di insegnare alle startup come fare internazionalizzare aziende che hanno la sede in Italia ma che sono più adatte a svilupparsi nel mercato americano, ha partecipato anche la Fondazione Democenter-Sipe. “Tramite il nostro incubatore abbiamo selezionato tre startup e le abbiamo accompagnate a New York”, dice Stefano Rossi della Fondazione.
C'è chi prova a sfondare nel mercato americano e chi invece invece ha già messo le radici.
Alain Antoniazzi della startup Shade, che si occupa di migliorare la qualità delle immagini sugli schermi LCD, spiega che la società “in America ha già circa il 40% dell'utenza, ma è anche il mercato nel qual intendiamo inziare a avere una sede fissa, dal momento che le aziende che lavorano in questo ambito hanno sede negli Stati Uniti, in particolare nella zona della Silicon Valley”. Il team della Shade ha un marchio internazionale essendo diviso tra Danimarca, Italia e Stati Uniti.
Gli Stati Uniti attirano, ma la Grande Mela di più. “Il mercato di New York per noi è interessante dal punto di vista finanziario – spiega Antoniazzi – perchè è il cuore dell'America finanziaria”.
Le idee non mancano. C'e' chi come Loschiavo ha pensato a un sistema che permetta all'utente di usare il suo smartphone per ordinare dentro il locale, con una una serie di strumenti con cui gestisce il menu e le informazioni nutrizionali e energetiche. Chi invece punta a migliorare la qualità delle immagini, riducendo i tempi di rendering (cosa fondamentale per ogni buon montatore di immagini).
Eppure, il mondo delle startup è ancora immaturo e spesso ci si confonde tra startup e impresa tradizionale. “In Italia ci sono alcune idee che sono molto brillanti, – dice Antoniazzi – ma c'è comunque un errore di fondo che è quello di considerare startup quelle che in realtà non lo sono, che non forniscono nessuna nuova tecnologia e non c'entrano niente con l'innovazione”.
E' vero che in America di startup se ne parla da almeno vent'anni, ma c'è un fattore che spesso parlando del paese dell'eterna crisi non si considera. Lo ricorda Rossi: “In America la concorrenza è altissima, invece in Italia si può sfruttare il fatto che la concorrenza non è estremamente elevata. In Italia se uno ha un buon progetto c'è modo di venir fuori dalla massa e ci sono tante istituzioni e enti, che dieci anni fa non c'erano, disposti a aiutarli”.
Se degli spiragli di luce nel mondo dell'imprenditoria tecnologica in Italia ci sono, non costituiscono ancora la struttura da cui far risollevare l'economia.
Il fondatore di VentureOutNY riconosce che “ci sono delle storie di successo ma non sono così frequenti e ci sono meno opportunità e meno investimenti in Italia per l'imprenditoria tecnologica.
Le maggiori differenze tra i sistemi tecnologici all'estero e negli Stati Uniti “non sono l'intelligenza, la formazione imprenditoriale e non mancano i geni fuori dagli USA, ma gli investimenti della comunità”.
Ci sono idee, fermento, progetti e capitali, un po' meno. Ci sono tanti giovani che sono andati all'estero hanno accumultato esperienze e vogliono fare dell'Italia la Silicon Valley made in Italy. I presupposti ci sono tutti ma come dice Rossi “da qui a fare startup di successo in Italia è ancora un po' difficile”.
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