Tutti scrivono e dicono, ormai da tempo, “c’è la crisi”. Lo si afferma, a mio avviso, nell’opinione pubblica ed anche in certi giornali, con serena rassegnazione. In particolare lo si dice, nel senso comune, come a giustificare un po’ tutto quello che non va: le difficoltà quotidiane, il problema dell’ormai usurata “quarta settimana”, della gente che non spende o meglio spende con maggiore attenzione, della disoccupazione in aumento, ecc… . “E’ la crisi” e lo si pronuncia allargando le braccia, sospirando e aspettando che passi, nella speranza che come individui non ci tocchi o se non altro il meno possibile.
La crisi, i cui effetti si fanno sentire e lo faranno ancora per molto, sembra arrivare come una bufera, una tempesta, un acquazzone sulla testa degli italiani. Non si sa quanto duri ma prima o poi dovrà passare. E’ necessario quindi, metaforicamente, rinchiudersi in casa, chiudere bene la porta, magari osservare più o meno attentamente dalla finestra, da una posizione preferibilmente privilegiata e aspettare che passi: si conteranno successivamente i danni e come sempre sarà necessario rimboccarsi le maniche, abbassare la testa e rimettersi a ricostruire. Non a caso si scrive e si dice “c’è la crisi” e mai, o comunque meno frequentemente, “siamo in crisi”. La crisi esiste, ma è esterna a noi. Ciò che si deve fare è aspettare, come detto, oppure da buoni italiani iniziare furbescamente a scoprire nuove vie di uscita, scappatoie magari malandrine.
Se pensassimo realmente e più profondamente all’idea del “siamo in crisi”, al fatto che la crisi è parte di noi, che è necessario metabolizzarla, probabilmente al posto di astuzie e raggiri, avremmo comportamenti più virtuosi; qualcosa di cui tutti gli italiani lamentano la mancanza ma che fuggono sotto sotto dal mettere in pratica. D’altra parte come potrebbe essere altrimenti? L’Italia è un territorio che vive da sempre nella situazione di crisi, reale o percepita. Prezzolini scriveva già nel 1921 che “in Italia nulla è stabile fuorché il provvisorio”, ricordando che l’eccezionalità diventa regola, quindi che la crisi è continua. Nel nostro territorio si sono sostituiti continuamente padroni e sovrani attraverso tutta una serie di straordinari flussi e riflussi che non ha paragoni altrove: perché sappiamo bene che la storia d’Italia è la storia di Francia, Austria, Germania, Spagna, dei paesi Arabi, ecc… Nuovi potenti sono sempre subentrati ai precedenti nell’illusione di portare ricchezza e felicità al popolo, che invece ha percepito il potere come qualcosa di lontano, o peggio come usurpazione, sopraffazione, privilegio, ancor più nella delusione crescente del progetto di Unità nazionale. Il pericolo di un nuovo nemico è percepito da sempre dietro l’angolo: che sia una reale bufera che rovina i raccolti, o un vicino invidioso capace di provocazioni o vendette, oppure di un potere centrale troppo spesso concentrato ad autocontemplarsi.
E’ così allora che ci siamo abituati a dire e a sentirsi dire “non si sa mai”. Mettiamo le mani avanti e se proprio dobbiamo cadere (visto che prima o poi accadrà), cerchiamo almeno di farlo procurandoci meno male possibile. Guardiamo cosa c’è dietro l’angolo ma con diffidenza, molto probabilmente un pericolo, alimentato da una diffusa cultura italica del sospetto e del dubbio. Il “non si sa mai” vuol dire che ci prepariamo sempre al peggio, o comunque ci proviamo.
Se gli Italiani nella loro storia hanno da sempre percepito il sentimento della crisi come onnipresente, al tempo stesso se ne è dimenticato o, peggio, modificato il significato originario. La parola crisi, infatti, proviene dal latino Crisis e dal greco Krisis e significa separazione, e si definisce come un momento che separa una modo di essere da un altro differente. Nella cultura e lingua cinese tale parola è rappresentata da due ideogrammi: il primo, wei, che significa problema, il secondo, ji, che significa opportunità.
Si tratta, quindi, di prendere consapevolezza che le crisi sono necessarie, che fanno parte dell’agire umano e che senza di esse probabilmente il corso della storia dell’uomo non sarebbe stato migliore. E’ necessario riappropriarsi dei significati profondi delle parole in modo da ridare senso a quelle realtà che abbiamo imparato ad allontanare, a non sentire come nostre, a non voler riconoscere per quello che sono, esclusivamente perché espropriate dai nostri sensi. Nella società del benessere, d’altra parte, la crisi non può che essere negativa, perché il top può essere modificato solo da un down.
Per concludere, in un contesto dove tutto sembra essere conseguenza dalla crisi, si può ritenere che gli italiani ed italici si trovino in una situazione “privilegiata”. La loro lunga esperienza a contatto con crisi di ogni genere: politiche, sociali, culturali, economiche; li ha resi avvezzi, degli abitudinari. Si risparmia più che in altri paesi, “si mette da parte” perché un giorno tutto potrà tornare utile e forse lo stesso Prezzolini parlava proprio di questo quando scriveva che in Italia “per le cose grosse non si cade mai, per quelle piccine spesso”.