Allo Stanford Research Institute's Long Range Planning Service, quella volta ci presero proprio. L’elaborazione teorica partì da una constatazione: l’impresa, così come ogni altro soggetto collettivo, non opera in un cosmo isolato, ma interagisce con l’ambiente attraverso reciproci scambi di messaggi e influenze. Focalizzandosi sulla natura delle società di capitali, i ricercatori rilevarono che queste non se la vedevano solo con sottoscrittori e sostenitori diretti, shareholder e stockholder ovvero detentori di azioni o obbligazioni. Le società di capitale e in genere le imprese si rapportavano anche a quei soggetti che, senza partecipazioni finanziarie dirette, si confrontavano con le dinamiche aziendali, in quanto portatori di interessi toccati dalle scelte dei dirigenti. I sindacati dei lavoratori rientravano in quella categoria. Allo stesso titolo i consumatori e le comunità di cittadini influenzate dai comportamenti imprenditoriali, ad esempio in materia ambientale. Si ritenne che quell’insieme di soggetti costituisse un gruppo suscettibile di specifica indagine sociologica ed economica. Così nacquero alla letteratura economica e sociale gli stakeholder, e con loro la Stakeholder Theory. Era il 1963. La successiva sistematizzazione di Freeman avrebbe dato alla teoria dignità scientifica, consentendone l’ingresso negli studi accademici e nella vita delle imprese.
Nel mezzo secolo trascorso dall’intuizione, la teoria ha approfondito soprattutto gli aspetti etici, legati all’ampliamento del numero delle categorie sociali cui è riconosciuta capacità di identificarsi negli effetti delle scelte aziendali. La constatazione che l’impresa non tiene conto solo di management e azionisti, comporta che non è più soltanto la ricerca del profitto a indicare la rotta delle scelte strategiche. Vanno valutati anche gli aspetti di responsabilità sociale. Il consumatore può castigare l’impresa per comportamenti non etici, passando ad altro fornitore di beni o servizi (ne sanno qualcosa Nike e gli altri marchi boicottati per l’utilizzo di mano d’opera minorile e sottopagata nei paesi in sviluppo); il sindacato può scioperare o boicottare la produzione; stampa e media possono orientare i consumatori a scelte che finiscono per penalizzare il risultato del conto economico; le associazioni di consumatori possono portare in giudizio l’impresa e batterla.
Non è per caso che uno degli avversari più agguerriti della teoria si sarebbe rivelato il pasdaran liberista Milton Friedman, nemico sia della "stakeholder view" (mai da lui considerata teoria scientifica) che della responsabilità sociale d'impresa. In linea con la sua visione darwiniana dei rapporti socio-economici, Friedman ha sostenuto che i dirigenti debbano sempre agire su mandato degli azionisti che loro affidano il proprio denaro nella speranza di lucrare dividendi. Il management mancherebbe ai propri doveri laddove orientasse la sua funzione di “dipendente” dell’azionista verso l’interesse di terzi estranei. Friedman afferma che non spetta all’impresa risolvere problemi sociali, neppure quelli che essa causa, e che l’impresa viola il patto con gli azionisti se fa beneficenza con il denaro affidatole per altre finalità. L’economista arriva ad evocare il principio “no taxation without representation”, come se lo storno di denaro aziendale per finalità sociale fosse una tassa impropria caricata sull’azionista ignaro. Al nostro non interessa che, mentre lui se ne stava abbarbicato alla concezione settecentesca dell’impresa, l’azionista contemporaneo sia evoluto in cittadino consapevole, e ora chieda all’impresa nella quale investe responsabilità e tutela dei diritti degli stakeholder, alla cui categoria sa di appartenere.
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