Ho letto con molto interesse un articolo di Bruno Tinti sul Fatto Quotidiano. Condivido in pieno sia la sua analisi sull'inutilità dell'abolizione dell'IMU, noto cavallo di battaglia del pregiudicato di Arcore, sia il suo giudizio poco lusinghiero sulla posizione del PD in merito. I nostri eletti potrebbero proporre una razionalizzazione dell'imposta, e invece si piegano ancora una volta alla volontà del loro alleato (padrone?) di governo, barattando come al solito la credibilità per le poltrone governative.
Pur condividendo l'analisi dell'ex magistrato, mi sento di porre una domanda: quanto distorsiva è l'evasione fiscale, che in Italia è enorme, sulle conseguenze sociali dell'IMU?
Ha ragione il giornalista quando fa notare che, proporzionalmente, un'imposta di 187 euro su un reddito di 10,000 euro ha un peso relativo molto superiore rispetto a un'imposta di 629 su un reddito di oltre 120,000 (soprattutto considerando la propensione marginale al consumo, che è una funzione decrescente del reddito). Ed è condivisibile, sulla carta, la proposta di esentare le fasce di reddito più basse, per accentuare la proporzionalità dell'imposta sui redditi oltre i 50,000 euro.
Dal punto di vista dell'equità sociale, un'idea del genere non potrebbe che essere accolta favorevolmente. Questo ragionamento, tuttavia, non tiene conto di un fatto importante: quali sarebbero le conseguenze reali di un tale cambiamento? Chi ne trarrebbe vantaggio, e chi ne sarebbe penalizzato?
Per calcolare l'imposta dovuta, l'erario si basa sulle dichiarazioni dei redditi. Alcuni di noi, volenti o nolenti, non hanno la possibilità di falsarle: per esempio i lavoratori dipendenti, il cui reddito è dichiarato dalla loro azienda, e quindi senza margine di ritocco; e i pensionati, i dipendenti pubblici, che ricevono la loro busta paga direttamente da istituzioni statali. Altri, come i lavoratori autonomi, sono tenuti a dichiarare essi stessi i loro redditi: è dall'onestà di queste persone, nonché dalla severità dei controlli di Equitalia, che dipende la giustizia sociale. Ai redditi da lavoro, poi, si sovrappongono in maniera trasversale le entrate provenienti dalle rendite: per esempio, quelle dei titolari di immobili dati in affitto. Per queste, ci si affida al senso civico dei proprietari e all'efficacia dei controlli. Purtroppo, le mancate fatturazioni e i pagamenti in nero sono una malaugurata realtà con la quale ci dobbiamo confrontare.
Tenendo questo a mente, proviamo a immaginare quali sarebbero le conseguenze di una più marcata proporzionalità di un'imposta come l'IMU. Chi ne gioverebbe? Le persone con i redditi meno elevati, certo, ma anche i soliti evasori che, premiati ancora una volta per la loro disonestà, si vedrebbero cancellata una tassa, per quanto di modesta entità rispetto alle loro entrate. A chi, invece, si chiederebbero maggiori sacrifici? A coloro che evadere non possono, e a quei lavoratori onesti che, in ogni caso, decidono di contribuire fino in fondo. Insomma, saremmo nella stessa situazione in cui ci rimettono i soliti noti, a tutto vantaggio dei ladri.
Ben vengano quindi idee su come rendere le imposte più eque. Occorre però non perdere di vista una delle radici dei nostri guai finanziari: senza una decisa e convinta lotta all'evasione, ogni proporzionalità nelle nostre tasse verrà distorta, perdendo molta della sua efficacia.
Già ci aveva pensato il tanto bistrattato Monti, in un decreto legislativo del 2011 attraverso il quale l'ex presidente del Consiglio ha abbassato le soglie sotto le quali l'evasione non era considerata un reato penale, e dunque punita solo con un'ammenda amministrativa. È un passo nella giusta direzione, ma mi sorge spontanea una domanda: perché la gravità di un'evasione fiscale dovrebbe essere misurata con l'ammontare dell'imposta evasa? Non vi sembra diseducativo che lo Stato consideri "poco grave" rubare una quantità bassa, anche se rappresentasse la totalità delle entrate di un contribuente? Un furto è un furto; io riterrei che la disonestà va sanzionata, sempre e comunque.
Sulle mosse del PD in questo campo occorrerebbe stendere veli pietosi. Davvero stucchevoli sono state le parole di Fassina di qualche tempo fa, che teorizzava l'evasione per necessità. Pagare le imposte è un dovere di ogni cittadino: se il loro ammontare è troppo alto, la colpa è di coloro che, come questi signori, non hanno mai fatto nulla di concreto per punire i disonesti. Ma d'altronde, stiamo parlando di un partito che governa con un pregiudicato per frode fiscale, dimostrando oltre tutto di trovarcisi perfettamente a suo agio. Che messaggio possono dare questi figuri ai loro elettori? Quanto credibili suonano i loro propositi di lotta all'evasione e di ricerca di giustizia sociale?
Formidabile poi il nostro Capo dello Stato ad aeternum. Adesso sappiamo che, qualora la colpevolezza di un evasore fiscale venga accertata da tre tribunali e sanzionata da una sentenza definitiva e passata in giudicato, è "legittimo" e "comprensibile" esprimere riserve e disappunto per questa sentenza; ed è pure legittimo chiedere la grazia (a patto che la si chiami, con molto tatto istituzionale, "agibilità politica": spettacolare questa neolingua, a questi qua Orwell gli fa un baffo).
Alla luce di tutto questo, mi riesce più facile capire come sia riuscito questo connubio fra il camaleontico Napolitano, il partito del Pregiudicato B., e il PD: pares cum paribus facilis congregatio est.
* Jacopo Coletto lavora a New York come analista finanziario in una delle maggiori società di gestione del risparmio americane. Ha conseguito una laurea in Discipline Economiche e Sociali presso l’università Bocconi e un master in Ingegneria Finanziaria presso l’Università di California a Berkeley. Frequenta il Circolo PD di New York