Nel 2009, quando la crisi finanziaria americana sembrava aver trascinato il paese ad un passo dal disastro, apparve chiaro a molti osservatori che una delle cause principali del crack fosse da individuare nelle dimensioni dei principali istituti bancari statunitensi.
’Too big to fail’ ovvero ’troppo grande per fallire’ é un’espressione che, negli ultimi anni é divenuta comune nei media americani e che si riferisce al rischio di un collasso sistemico provocato dalla potenziale bancarotta di alcune tra le principali banche del paese, con conseguenze apocalittiche per l’intero assetto economico e addirittura per la stabilitá politico-sociale degli Stati Uniti. Uno dei pilastri del capitalismo é costituito dal fatto che l’imprenditorialitá e l’assunzione del rischio da parte delle aziende vengono premiate quando si realizzano attraverso sagge e avvedute decisioni manageriali mentre quando queste decisioni sono avventate, il prezzo da pagare é quello della bancarotta.
Nel 2008 tuttavia, subito dopo il fallimento di Lehman Brothers e il conseguente congelamento del credito interbancario, le autoritá finanziarie americane si resero conto di dover mettere da parte questo assioma del capitalismo per salvare il sistema finanziario. Le banche infatti, avevano raggiunto proporzioni e interconnessioni tali, che il fallimento di una avrebbe facilmente innescato una reazione a catena dagli esiti imprevedibili.
Per questo motivo, piuttosto che attendere nel lungo termine i tanto celebrati effetti autocorrettivi del libero mercato, il Ministero del Tesoro e la Federal Reserve, la banca centrale americana, si precipitarono in soccorso degli istituti in difficoltá garantendo loro linee di credito a tassi di interesse ridottissimi e una vigorosa iniezione di capitali pubblici nota come TARP (Troubled Assett Relief Program).
Che le banche private americane fossero state salvate grazie a una massiccia dose di danaro pubblico era noto a tutti e il fatto che, malgrado questo, le banche abbiano continuato ad operare come se nulla fosse accaduto, é stata la scintilla che ha contribuito alla nascita dei due maggiori movimenti di protesta politico-sociale di questo periodo: il Tea Party e Occupy Wall Street.
Ció che non si sapeva invece e che é stato rivelato solo adesso dal settimanale di economia e finanza ’Bloomberg’, é stata la cifra astronomica che la Federal Reserve ha messo a disposizione del sistema bancario durante gli anni caldi della crisi.
Per entrare in possesso delle oltre 29,000 pagine di documenti che rivelano i dettagli del salvataggio, ’Bloomberg’ ha combattuto prima con la Fed e poi con il consorzio che rappresenta le banche americane, una battaglia legale durata oltre due anni e che è giunta fino al massimo grado di giudizio del sistema legale statunitense: la Corte Suprema la quale infine, decidendo di non prendere in esame il caso, ha forzato di fatto i banchieri ad ottemperare agli obblighi di trasparenza.
Dai documenti ottenuti da Bloomberg, risulta che la cifra che la Federal Reserve ha messo a disposizione (anche se non ha sborsato interamente) degli istituti di credito si aggira intorno ai 7770 miliardi di dollari, quasi pari alla metà dell’intero prodotto interno lordo degli Stati Uniti. Una quantità colossale di danaro a confronto della quale, i 700 miliardi di finanziameno concesso dal Ministero del Tesoro (il TARP) appaiono come un’inezia. Eppure anche questa somma, all’epoca, provocò veri e propri moti di indignazione da parte di molti parlamentari, soprattutto di destra, scandalizzati dall’entità dell’intervento finanziario del governo nell’economia. C’è da chiedersi come avrebbero reagito se fossero stati informati del fatto che, a loro insaputa, la banca centrale aveva stanziato una somma pari a dieci volte quella cifra.
Uno degli elementi più esplosivi emerso dalle carte ottenute da Bloomberg infatti, è costituito proprio dalla estrema segretezza che ha caratterizato l’intera operazione, avvenuta all’insaputa non solo del Parlamento ma di molti membri dello stesso governo Bush, allora ancora in carica.
Secondo Ben Bernanke, il Presidente della Federal Reserve, tutta questa riservatezza fu dovuta alla necessità di non stigmatizzare singoli istituti di credito nel tentativo di prevenire reazioni di panico da parte di azionisti e risparmiatori che avrebbero potuto legittimamente dubitare della solidità di una banca in condizioni di dover richiedere soccorso alla Fed. Nel 2010 tuttavia, quando il ruolo giocato nella crisi dalle dimensioni delle banche fu chiaro, due senatori democratici Sherrod Brown e Ted Kaufman, introdussero una proposta di legge per forzare quegli istituti di credito considerati ’troppo grandi per fallire’ a ridurre le proprie attività ridimensionandosi al punto da non costituire più un pericolo per l’intero sistema.
A questo punto però, la American Bankers Association, la lobby che rappresenta gli interessi dei maggiori istituti di credito statunitensi iniziò ad esercitare enormi pressioni sui membri del parlamento per evitare che la proposta dei due senatori venisse tramutata in legge e spendendo quasi 30 milioni di dollari sottoforma di contributi elettorali, nel tentativo di influenzare la decisione finale.
Uno degli argomenti utilizzati dalla A.B.A. fu che le dimensioni e la gamma di attività svolte da una banca ne riflettono il successo impreditorialee che ogni tentativo di contenerne l’espansione equivale a “disincentivare questo successo” e a “punire i vincenti”. Un concetto questo che avrebbe assunto una luce completamente diversa se i politici chiamati a pronunciarsi sulla legge Brown-Kaufman avessero saputo delle vagonate di danaro pubblico che questi “imprenditori di successo” avevano ricevuto dalla Federal Reserve.
Alla fine, la proposta di legge di Brown e Kaufman fu sconfitta con 60 voti contro 31 anche grazie all’implicito sabotaggio del nuovo Ministro del Tesoro del governo Obama, Timothy Geithner.
Una sconfitta amara che sanziona uno statu-quo in cui, attualmente, le sei maggiori banche statunitensi, quelle considerate ’too big to fail’ sono ancora più grandi ed influenti del periodo precedente alla crisi e i cui impiegati, a partire dal 2010, hanno ricominciato a guadagnare salari che sono in media il doppio di quelli degli altri settori e che, conteggiando anche i bonus, equivalgono ad una somma di 146,3 miliardi di dollari, pari ad una media di 126,342 dollari per impiegato.
Una precedente versione di questo articolo è stata pubblicata sull’appzine L’INDRO ed è disponibile su www.lindro.it/