Quando si nasce nella parte sbagliata del mondo, le scelte davanti sono solo due: o si soccombe o si cerca il riscatto. Somaye Parsa, giovane donna afghana ha provato a riscattarsi fuggendo dal suo paese nel 2021 quando i Talebani ripresero il controllo del paese restaurando il fanatico regime fondamentalista islamico. L’unica scelta possibile per lei visto che oltre al “peccato” di essere femmina, svolgeva un lavoro immorale, (per gli standard Talebani) guida turistica per quegli stranieri abbastanza impavidi da voler visitare l’Afghanistan.
Una fuga che le è costata il dover lasciare indietro le due sorelle e i genitori. Suo padre non molto tempo dopo venne convocato ed interrogato a causa delle interviste anti-Talebani rilasciate da Somaye. Le sorelle invece finirono con l’ammalarsi di depressione quando vennero bandite le più elementari libertà alle donne. Oggi Somaye vive serena in Germania, ad Amburgo, veste all’occidentale, si può concedere il vezzo di una maglietta corta esattamente come tante altre ragazze della sua età. Ha ventotto anni ma a parlarci si nota come l’aver vissuto sotto un regime che considera il canto degli uccellini o il gioco degli scacchi come qualcosa di immondo, l’abbia fatta maturare in fretta.
È difficile anche solo immaginare, per chi invece ha avuto in sorte la fortuna di nascere in quella parte del mondo dove se pure bruci la bandiera della tua nazione, nessuno ti sbatte in una cella o, peggio ancora, ti sotterra e ti lapida, cosa significhi trovarsi a vivere in una società scaraventata indietro nella linea di civilizzazione di almeno 1500 anni.
Somaye la tua è una storia di resilienza e spirito d’iniziativa, raccontaci di te
“Sono nata in Iran nel 1997. Anche i miei genitori sono nati in Iran ma nessuno di noi è di nazionalità iraniana o possiede documenti che ci identificano come tali. Quando avevo dodici anni poi, i miei genitori decisero che ci saremmo trasferiti ad Herat così da potersi prendere cura dei miei nonni. Storicamente Herat era sotto la sfera culturale persiana; quindi, in questo senso la mia famiglia ha origini iraniane anche se ha vissuto per anni in Afghanistan. Mio padre lavorava come socio in un’impresa di metalli, ferro e acciaio. Mia madre invece era sarta. La sua macchina da cucire era sempre in movimento, un mormorio silenzioso a ricordarmi la sua forza e creatività. Quando ci trasferimmo in Afghanistan i Talebani non erano più al potere (un primo governo a guida talebana risale al periodo 1996-2001 ndr) ed era un paese estremamente diverso da quello che diventò sotto il loro regime.”
Com’è stata la tua infanzia? Cosa significa crescere in Afghanistan per una ragazza?
“Sono sempre stata una persona creativa. Da piccola ero una di quelle bambine che riempivano sempre i bordi dei quaderni con dei disegni. Mia madre mi ha insegnato a cucire ma io ho sempre voluto disegnare. Ancora oggi quando ho tempo, dipingo. Quando ci trasferimmo ad Herat, era tutto completamente diverso per me, la cultura, la gente, la lingua. Sono dovuta crescere più in fretta di quanto avrei voluto ma ho imparato ad adattarmi. È stata un’emigrazione che mi ha insegnato tanto, sui cambiamenti, identità, ed il vivere tra due mondi. Ad Herat terminai gli studi riuscendo a diplomarmi ma anche prima che i Talebani tornassero al potere l’istruzione per le ragazze era accompagnata da battaglie silenziose. Ricordo la gente dire che una ragazza dovrebbe solo fare l’insegnante e solo in un’ambiente tutto femminile. Io però non volevo sentirmi costretta dentro dei parametri così limitanti, per questo scelsi di studiare economia manageriale all’università di Herat, un indirizzo tutt’altro che tradizionale per quella società. Le donne afghane cercavano sempre di respingere gli ostacoli posti davanti a loro. Cercavamo di cambiare la mentalità e mostrare che proprio come gli uomini, avevamo il diritto all’istruzione e alle opportunità. Nei cinque, sei anni prima che i Talebani ritornassero vennero fatti progressi notevoli. Tante le ragazze che andavano a scuola, si iscrivevano alle università. Per la prima volta si aveva la sensazione che qualcosa si stesse muovendo in avanti.”
Poi sei diventata una guida turistica, è difficile immaginare l’Afghanistan come meta turistica o che ci sia qualcuno così coraggioso da volerlo visitare
“Esatto. Lavoravo per un’agenzia di viaggi che offriva servizi ad ardimentosi turisti stranieri che desideravano visitare il mio paese. Il mio ruolo non era quello di semplice guida turistica ma di persona capace di navigare tra le mille difficoltà, mancanza di infrastrutture, questioni di sicurezza e tramite con la popolazione locale visto che la lingua inglese non è parlata da tutti in Afghanistan. Ho lavorato come guida turistica per due anni e mezzo ed ebbi il riconoscimento di prima guida turistica donna in Afghanistan. Non era un lavoro facile. In un posto come Herat anche il solo camminare accanto ad un uomo straniero dà adito a sospetti e illazioni. La sicurezza era una preoccupazione costante e rapimenti e minacce non erano inusuali, soprattutto per una persona come me, che sfidava le norme tradizionali. Ma ho scelto quella strada consapevolmente e con un amore profondo per ciò che facevo. Dentro di me ho sempre sentito che non ero destinata a vivere intrappolata nelle imposizioni altrui.”
Il ritorno del regime talebano deve essere stato traumatizzante, soprattutto per i giovani
“È difficile perfino per me che ho vissuto in quella società tanti anni credere quanto male le cose siano andate. Il progetto talebano di creare una società islamica ha di fatto trasformato l’Afghanistan in una nazione contro le donne. I Talebani hanno cancellato la presenza femminile dalla vita pubblica come se il paese ora appartenesse solo agli uomini. La versione dell’Islam che usano per giustificare le loro azioni non è il vero Islam, non è ciò che esso insegna. Hanno usato l’ignoranza, manipolata a loro uso e consumo in nome della religione, ed è ciò che rende tutto ancora più doloroso. Viaggiare, ridere, studiare, lavorare, perfino camminare per strada è diventato una sfida. La musica è stata vietata, non solo quella occidentale ma persino le canzoni tradizionali afghane. Immagina qualcuno che ti dice che i colori che indossi sono sbagliati, già perché i colori vivaci, allegri non sono permessi alle ragazze. Ridere ad alta voce, uscire, celebrare qualcosa o studiare sono tutte cose considerate inappropriate sotto i Talebani. A dirla tutta, non meritano neanche di essere chiamati tali (il nome significa studenti coranici ndr), sono solo uomini ignoranti che comandano in maniera oscurantista instillando terrore. Quando guardo alla condizione delle mie sorelle, delle altre donne afghane provo un dolore profondo. Quelle donne meritano di essere ascoltate ed hanno il diritto di vivere libere. Le generazioni più giovani hanno provato questa libertà quando i Talebani vennero cacciati, e non è una consapevolezza che sparisce così all’improvviso anche se ora cercano di silenziarla.”
Quando hai preso la decisione di fuggire? Come sei riuscita a lasciare il paese?
“Non sono fuggita nel senso stretto del termine. Ho lasciato l’Afghanistan quando i Talebani presero Herat e continuare il mio lavoro divenne impossibile. Ricordo ancora quel giorno. Ero a pranzo in un ristorante con uno dei miei turisti quando entrò un gruppo di Talebani combattenti. Iniziarono ad urlare, fu subito caos. Io e la donna a cui facevo da guida e che a quel punto era completamente terrorizzata e temeva di essere sequestrata, fuggimmo e ci nascondemmo a casa mia per quasi una settimana. Il programma di viaggio prevedeva solo tre giorni a Herat ma quando i Talebani annunciarono che avrebbero attaccato qualsiasi aereo che avrebbe sorvolato la città, tutti i voli vennero cancellati. Fu in quei giorni passati a nasconderci che capii che non avevo futuro lì. Sapevo di essere in pericolo a causa del mio lavoro ed i Talebani andavano a caccia di chiunque avesse legami con persone straniere, o con il passato governo come artisti o cantati. Quella stessa settimana affrontai l’argomento con mio padre, un uomo rigido e protettivo. Gli dissi che non potevo continuare a vivere lì. Fu la conversazione più difficile che avessimo mai avuto. Otto giorni più tardi io e la turista che accompagnavo riuscimmo a salire su un aereo e lasciai Herat per sempre. Raggiungemmo Kabul dove rimasi quasi un mese. Lì, insieme al responsabile dell’agenzia di viaggio discutemmo quale poteva essere il paese più idoneo da raggiungere, avevamo visti d’ingresso per sette diverse nazioni. Alla fine, il mio capo optò per l’Italia. Rimasi in Italia per circa un anno e poi mi trasferii in Germania.”
Cos’è stato della tua famiglia?
“Con i Talebani di nuovo al potere la vita è diventata sempre più difficile. Mia madre, una donna forte e sempre presente con noi figlie non poteva più sopportare il vedere le mie sorelle perdere tutto, e quando la loro salute mentale cominciò a declinare prese la decisione di andare via. Richiedere asilo politico però non è una cosa semplice, soprattutto per una ragazza giovane e senza esperienze lavorative o con documenti a supporto della richiesta di asilo. La sola strada a portata di mano e la soluzione più vicina era entrare in Iran. Ma anche lì la vita è tutt’altro che semplice. La mia famiglia non possiede alcun documento legale, l’Iran non riconosce ufficialmente i profughi afghani, ed anzi di recente il governo ha deciso che tutti gli afghani privi di documenti potranno essere rimandati indietro. Non ho idea di cosa possa accadere a mia madre ed alle mie sorelle se saranno costrette a ritornare in un paese dove il loro futuro gli è stato strappato di mano. Anche se in Iran alle mie sorelle non è stato concesso studiare, almeno vivono in una condizione di relativa sicurezza e con un po’ più di dignità.”
Dopo aver lasciato l’Afghanistan, Somaye ha deciso di raccogliere le sue memorie e raccontare i fatti di cui è stata testimone e le battaglie che le donne afghane hanno provato a portare avanti, in un libro a cui sta lavorando, Forbidden Afghanistan. Nonostante le difficoltà ed i rischi è rimasta in contatto con alcuni degli amici che vivono in Afghanistan anche se, racconta, sono contatti sempre più sporadici. Le storie che ascolta descrivono un paese cambiato drasticamente, dove il fanatismo religioso è arrivato al punto da inventarsi la legge sulla promozione della virtù e sulla prevenzione del vizio. Nei mesi immediatamente successivi all’instaurazione del regime, ci furono coraggiosi tentativi da parte delle donne di far sentire la propria voce. Erano cortei pacifici in cui veniva scandito l’appello non portateci via il nostro diritto all’istruzione a cui anche una delle Sorelle di Somaye prese parte. “In un primo momento – racconta Somaye – i Talebani non risposero pubblicamente a queste manifestazioni e molti pensarono che quel silenzio significasse altre restrizioni in arrivo. Ciò che seguì fu invece ancora più terrificante. Le ragazze vennero pedinate per scoprire dove abitavano e poi con irruzioni notturne trascinate via. Alcune furono costrette a sposarsi con membri talebani, altre invece semplicemente scomparvero e di loro non si seppe più nulla. Agli uomini che avevano appoggiato queste ragazze e parlato in loro difesa fu riservata una sorte altrettanto spaventosa. I loro corpi vennero fatti ritrovare nelle rotonde stradali, lasciati a terra per giorni, così che tutti potessero vedere cosa succede a chi osava sfidare il potere talebano. Quando i miei genitori videro che questo era ciò che accadeva giornalmente, presero la decisione di lasciare l’Afghanistan. Non era rimasto alcun futuro in quel luogo dove persino la dignità era diventata pericolosa.”
Somaye, in tutto questo, qual è il tuo rapporto con la religione? Credi in Dio?
“Sì, credo in Dio. Credo nel Dio che è viene pregato in maniera diversa dalle diverse religioni, ma il mio rapporto con Esso è personale e indipendente. Sono cresciuta in un contesto religioso ma con il tempo ho cercato di capire cosa realmente significasse per me la fede, non semplicemente seguendo regole e precetti e non accettando in maniera acritica le credenze che mi sono state trasmesse. Per me, avere fede in Dio è più una questione di bontà, coscienza e forza interiore non paura o controllo. Ho visto da vicino come la religione può essere usata come strumento di potere e oppressione, come fanno i Talebani, ed è qualcosa che non posso accettare. Ho rispetto per tutte le religioni ma ho deciso di intraprendere il mio cammino spirituale di presa di coscienza e comprensione piuttosto che seguire una struttura predefinita.”