Mi accolse nel patio della villa alla periferia di Hammamet con una gelida stretta di mano e lo sguardo girato altrove. Bettino Craxi, da tre anni autoesiliato in Tunisia e protetto dal presidente-amico Ben Ali, non era di buon umore. E l’incontro accettato di malavoglia con l’inviato di un giornale che non gli era amico aveva probabilmente contribuito ad accentuare la sua luna storta. Era la primavera del 1998, un anno e mezzo prima della sua morte (19 gennaio 2000). La ricorrenza del venticinquennale ripropone in questi giorni il dibattito su uno statista che ha occupato da protagonista la scena politica italiana per tutti gli anni Ottanta e, in coincidenza con Tangentopoli, nella prima parte degli anni Novanta.
Lo spunto per l’intervista non era la latitanza (pendeva a suo carico una minaccia di arresto per reati di corruzione), ma la passione per la pittura a cui si stava dedicando con spirito garibaldino (e del resto l’eroe dei due mondi aveva sempre occupato un posto di rilievo nel suo Pantheon personale). L’incontro era stato propiziato dalle pressioni di amici comuni che avevano finito per piegare la sua ritrosia.
Craxi pittore concettuale era ovviamente un tema di grande interesse. Un’inedita angolatura di interpretazione sulla personalità controversa – basculante fra l’arroganza e la tenerezza, la prepotenza e la timidezza – del politico che per oltre un decennio aveva tenuto in pugno il paese. L’unico che con la sua determinazione aveva osato perfino sfidare a Sigonella gli Stati Uniti (alleato storico). Rifiutandosi in difesa dell’autonomia nazionale di consegnare a Ronald Reagan i terroristi palestinesi che durante il sequestro di una nave da crociera avevano ucciso un cittadino americano disabile ed ebreo.

Il dovere dell’ospitalità gli vietò, pur nel distacco, di apparire brusco. Prima della lunga chiacchierata mi fece visitare lo studio dove troneggiava il cavalletto e, a volo d’uccello, le stanze meno private della villa che non aveva niente di sontuoso e non disponeva nemmeno di una vista sul mare. Poi ci sistemammo in giardino. E da lì partì una conversazione all’inizio circospetta. Era come se l’intervistato avesse più voglia di studiarmi che di spiegare le fonti della sua ispirazione artistica. Ma dopo i primi passaggi il grumo di diffidenza che lo tratteneva cominciò a sciogliersi. Stava metabolizzando che non ero andato a trovarlo per riaprire le vecchie ferite delle contese politiche con il mio giornale. Ero lì solo per cercare di misurare lo spessore del suo trasporto per l’arte e dei riflessi sulla sua psicologia di gigante imbavagliato da un destino che riteneva ingiusto e crudele.
Mi confidò che fin da giovane si era interessato alla pittura. Parallelamente agli esordi politici la sera a Milano frequentava gli ambienti artistici di Brera. Era amico personale di maestri di chiara fama e collezionista dei loro quadri. Una passione che in qualche modo stemperava in un’altra dimensione le asperità di una vita pubblica inevitabilmente agitata. Da dilettante era rimasto affascinato dalle opere di Marcel Duchamp, il padre dell’arte concettuale. Una corrente a cui era rimasto fedele e che nelle interminabili ore dell’esilio lo impegnava come una sospensione dalle amarezze di un destino troppo rudemente capovolto.
Stava già male. Una forma aggressiva di diabete gli gonfiava le gambe, costringendolo a calzare scarpe molto comode e a camminare a passi lenti. Di notte stentava a prendere sonno e, come in una sorta di rimozione dalla sua lontananza, ascoltava i programmi radiofonici della vicina Italia. Covando rancore più contro gli ex membri del suo clan che lo avevano abbandonato dopo averlo idolatrato che contro gli avversari che per smitizzarlo gli avevano affibbiato il soprannome di “cinghialone”. Non si ritrovava nei panni del capro espiatorio, proprio lui che avrebbe voluto disegnare un volto nuovo e più moderno all’Italia.
L’atmosfera si era fatta quasi cordiale. Al punto che me la sentii di uscire dal seminato e affrontare un nodo che mi aveva riguardato personalmente. Una decina di anni prima avevo ricostruito dal Kenya un’intricata vicenda che aveva implicato il suo vice Claudio Martelli, fermato per presunta detenzione di droga all’aeroporto di Malindi. Scoppiò un putiferio, durante il quale Craxi dichiarò guerra aperta al mio giornale. Una storia da tempo accantonata che all’epoca mi aveva però causato qualche complicazione. Gliela ricordai e lui, con un gesto furtivo e qualche sbrigativa espressione, liquidò come acqua passata un episodio che all’epoca aveva occupato a lungo le prime pagine dei quotidiani. Uno dei tanti aspri episodi della lotta politica d vertice.

Al termine dell’intervista ebbe addirittura degli slanci di amicizia. Mi regalò, oltre a un suo scritto inedito sulla morte di Salvador Allende, un paio di vasetti in ceramica che aveva cesellato con le sue mani e aveva nominato “Lacrime dell’Italia”. Le striature in rosso e verde su sfondo bianco rappresentavano appunto le gocce che cadevano metaforicamente dai suoi occhi per il dolore provocato dagli infausti destini della nazione.
Il sole era ancora alto in quel pomeriggio primaverile. E mi invitò a fare una passeggiata nella Medina di Hammamet. Non c’era passante tunisino che non lo ossequiasse: grato per l’affetto e il sostegno che aveva sempre riservato al Paese maghrebino. Al bar sugli scogli dove ci eravamo fermati per un te’ alla menta fu servito con la riverenza che si deve ai potenti. Camminando lungo il porticciolo circostante sentì da un gruppo turistico che si addensava intorno alle bancarelle di un mercatino gli echi di una parlata del Nord Italia. Fu lui ad avvicinarsi, spinto dal bisogno fisico di ristabilire un contatto con le radici. “Di dove siete?”. “Del Bresciano”, gli fu risposto. E partì una cordiale conversazione sugli usi e sui costumi dei lombardi senza alcun accenno spinoso all’attualità politica e al suo esilio forzato.
Volle infine portarmi in automobile sulla sommità di una collinetta da dove nei giorni di luminosità piena si intravvedevano le coste della Sicilia. “Ecco”, mi disse, “questo è il mio cordone ombelicale con l’Italia che mi manca tanto”.