La prima volta che Bob Dylan cammina sullo schermo in A Complte Unknown è un lampo di pura ambiguità. È il 1961, e lui è solo un ragazzo che arriva dal Minnesota con una chitarra in spalla, un cappello troppo grande e una fame che sembra divorare l’intero Greenwich Village. Timothée Chalamet è il corpo e la voce (o meglio, l’eco) di Dylan nel film di James Mangold, che arriverà nelle sale italiane il 23 gennaio, dopo l’uscita negli Stati Uniti lo scorso 10 dicembre. “Non è un semplice biopic, o meglio, lo è solo per caso. È piuttosto un tentativo di catturare l’energia di un’epoca, una vibrazione unica che continua a risuonare anche oggi”, spiega Chalamet, arrivato a Roma insieme al regista, all’attore Edward Norton e le attrici Monica Barbano e Elle Fanning.
Mangold, celebre per raccontare storie di personaggi complessi come in Le Mans ’66 – La grande sfida (2019) e Logan (2017), gioca sul titolo: A Complete Unknown. Ed è così che Dylan ci appare, come un’entità sfuggente che si materializza dal nulla, raccontando storie improbabili sulla sua infanzia, guardando il mondo con occhi che sembrano costantemente in cerca di una via di fuga. Dylan è un paradosso vivente: è un ragazzo che nessuno conosce, ma che tutti osservano con la consapevolezza di trovarsi davanti a qualcosa di straordinario. Spiega Chalamet: “Interpretare Dylan significava esplorare le sue contraddizioni. Era un ragazzo inesperto ma consapevole della sua unicità. Un genio che si muoveva tra vulnerabilità e arroganza, come un bambino pericoloso, più facile da amare che da apprezzare”.

La macchina da presa di Mangold segue Dylan nei caffè del Village, nei vicoli fumosi, nelle stanze troppo piccole e troppo piene di sogni. Il Gaslight Café sembra respirare, le strade di New York sono talmente vive che puoi quasi sentirne l’odore. L’elemento più perturbante del film è il ritratto che offre del potere. Albert Grossman, interpretato con cinica eleganza da Dan Fogler, non vede in Dylan un genio artistico, ma un’occasione da sfruttare. Tuttavia, è Dylan stesso a possedere il controllo definitivo, non concedendo mai a nessuno il pieno accesso al proprio nucleo. Questa distanza diventa ancora più evidente nel rapporto con Pete Seeger (Edward Norton), presentato come un mentore che cerca di incanalare il giovane artista verso una causa più grande.
Dylan è consapevole di essere la mente più brillante in ogni stanza. Quando sferza con sarcasmo i testi di Joan Baez, Monica Barbaro, definendoli “un dipinto a olio nello studio di un dentista”, lei gli risponde con un secco: “Sei un po’ stronzo, Bob”. Lui non si difende, e nemmeno il film lo fa. Man mano che il Dylan di Chalamet evolve, anche la sua immagine cambia: i vestiti si fanno più scuri, gli occhiali da sole diventano un muro tra sé e il mondo.

E poi c’è la musica, non solo colonna sonora ma vera e propria struttura ontologica del film. Quando canta Masters of War durante la crisi dei missili cubani, Dylan non è soltanto un giovane artista che interpreta il disagio di un’epoca: è un creatore che modella e al tempo stesso sconvolge le aspettative di una generazione. “Interpretare le sue canzoni è stato come un viaggio nelle radici culturali dell’America”, spiega Chalamet. “Un’immersione profonda nelle tradizioni musicali che intrecciano passato e presente, rivelando la complessità e l’eredità della musica americana”.
Mangold e lo sceneggiatore Cocks si prendono delle libertà con i fatti storici. Gli eventi sono deformati, i rapporti reinventati, ma non in modo arbitrario: ogni deviazione storica è un tentativo di svelare la “verità più profonda” dell’immaginario dylaniano. “Il passato non si può raccontare esattamente com’è stato,” riflette ancora Chalamet, “ma si deve cercare di narrarlo così com’era percepito”.
Le invenzioni più significative riguardano la relazione tra Dylan e Seeger. In realtà, i due non si incontrarono nella stanza d’ospedale di Woody Guthrie, ma mesi dopo, quando Seeger aveva già sentito parlare di una promettente nuova figura del folk. Frutto di fantasia sono anche le scene in cui Dylan si introduce nel programma televisivo di Seeger, Rainbow Quest, così come la potente performance di The Times They Are a-Changin’ a Newport ’64, in cui Seeger, affascinato, ascolta il verso “Your sons and your daughters are beyond your command” senza cogliere che il mondo nuovo che Dylan annuncia non ha spazio nemmeno per lui. Suze Rotolo, l’ex storica di Dylan, lascia il posto alla fittizia Sylvie Russo, e con lei cambiano anche altri dettagli. Ma A Complete Unknown lascia ben chiaro che Sylvie/Suze è il fulcro del risveglio creativo e personale di Dylan.
Al Newport Folk Festival del 1965, Dylan è già un’icona: il volto del folk e del movimento per i diritti civili, grazie a brani come Blowin’ in the Wind. Quella notte la scena si trasforma in una tempesta. Seeger è il capitano che cerca disperatamente di mantenere la rotta, e Dylan è il meteorite che distrugge tutto. Quando imbraccia la chitarra elettrica e attacca Maggie’s Farm, non si tratta solo di una svolta musicale: è la fine di un mondo e l’alba di un altro. È la vittoria definitiva dell’io sul noi, della libertà individuale sul senso collettivo di appartenenza. “Libertà da noi e dalle nostre stronzate”, esclama Joan Baez rivolgendosi a Dylan. “Non era quello che volevi?”