Per gli italiani che hanno vissuto a New York negli anni Ottanta, Furio Colombo, scomparso il 14 gennaio a 94 anni, ha rappresentato un punto di riferimento indimenticabile. Brillante come giornalista e come rappresentante della Fiat negli Stati Uniti, poi direttore impareggiabile dell’Istituto italiano di Cultura di New York e professore alla Columbia University, ha regalato a tutti non soltanto la sua intelligenza, ma anche un atteggiamento amichevole e comprensivo.
A chi scrive, però, ha regalato molto di più. Tra i miei ricordi più preziosi, c’è la lettura del brevissimo messaggio che mi ha mandato nel lontano 2013 e che diceva: “Il tuo libro mi piace molto, farò volentieri l’introduzione”. Era la risposta che aspettavo con ansia dopo aver chiesto, piccola giornalista sconosciuta nel mondo editoriale, un enorme favore a un intellettuale e parlamentare rispettato e stimato. Sapevo che conosceva bene il mondo di cui parlo nel mio libro, quello degli ebrei italiani immigrati negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali, e ero al corrente della sua battaglia in Parlamento per la creazione della Giornata della Memoria, ma temevo un suo giustificato rifiuto.
Da allora, i nostri rapporti erano rimasti continui e amichevoli e Furio Colombo non aveva esitato a farmi altri doni preziosi, da aggiungere alla sua magnifica prefazione. Nel gennaio del 2016, era stato lui a presentare il mio libro alla Casa Della Memoria di Roma durante un evento organizzato dalla Fiap Romalazio e moderato dal suo presidente Italo Pattarini. E più recentemente, nel 2021, mi aveva concesso una lunga intervista per La Voce di New York per parlare di un argomento tutto diverso. Durante la nostra conversazione, infatti, aveva commentato l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca e la sconfitta di Donald Trump. E soprattutto aveva fatto una serie di riflessioni sul futuro della democrazia americana che appaiono, proprio alla vigilia del secondo mandato di Trump, inaspettatamente attuali e approfondite.
Proprio per onorare la sua memoria, crediamo che sia giusto riproporla: eccola di seguito.
Una volta, quando era direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, lei aveva affermato che, nel corso della storia, vi sono stati molti attacchi alla democrazia americana, ma che hanno sempre perso. Alla luce di questo, come giudica quello che è successo a Washington nelle ultime settimane?
“È difficile dirlo adesso perché certamente c’è stato un colpo gravissimo alla democrazia nei quattro anni di Trump, nella vittoria di Trump nel 2016 e anche nei 74 milioni di voti che Trump ha ottenuto nel 2020 pur perdendo. Detto questo, con Joe Biden presidente io direi che è vero anche adesso”.
Negli ultimi giorni, il partito repubblicano è parso diviso e incerto sulla direzione da prendere, con i suoi leader apparentemente pronti a muoversi in direzioni diverse. Secondo lei, il vecchio Grand Old Party ha qualche speranza di tornare ad essere il partito che era prima di Trump?
“Penso più sì che no perché la convenienza a sopravvivere bene e poi diventare magari rispettata maggioranza in un congresso ‘’normale’ è molto alta. Stiamo parlando di gente che ha fatto della politica il proprio destino e la propria professione, e se hai fatto della politica la tua professione vuoi che funzioni bene. Un buon avvocato non vuole distruggere le prove e stracciare le toghe, preferisce un processo ben fatto in cui si veda bene la sua vittoria. Siccome i repubblicani hanno la possibilità di lavorare anche a lungo sul pensiero conservatore che è diffuso in tutto il mondo, Italia compresa, perché dovrebbero rovinarsi con dei comportamenti come quelli che Trump ha indicato, distruttivi ma anche finali, tutti fatti con la logica del ”la va o la spacca”, quando possono essere dei rispettati rappresentanti della repubblica? Ha funzionato troppo a lungo e troppo bene per distruggere, distruggendo anche se stessi.
E poi sono due razze diverse, quella che matura sotto la crosta peggiore della vita americana e che si è vista nei vari gruppi che hanno partecipato all’invasione di Capitol Hill, e quella che hanno sempre partecipato alla vita politica. E’ vero che, messi alle strette di fronte a Trump, i repubblicani lo hanno abbracciato e lo hanno seguito suonando la banda, e anche il fatto che si sono trovati di fronte a un fatto compiuto pauroso e inaspettato e molti hanno pensato che era molto più conveniente fare buon viso a cattiva sorte. Molti, credo, hanno pensato: ”intanto ci allarghiamo, mettiamo le radici, la gente viene da noi”. La mia impressione, insomma, è che molti repubblicani abbiano letto male l’avvento di Trump, in maniera clamorosamente sbagliata per loro e per il loro destino. Per questa ragione io penso che sì, ci sarà di nuovo un Partito repubblicano, cambiato come cambia tutto, ma che avrà un suo rapporto con come è stato nel passato e con la dignità che ha avuto nel passato. Nonostante tutto”.
Quindi il giudizio è sostanzialmente ottimista?
“Da persona ‘liberal’ come sono non sono contento di dire che i repubblicani ne usciranno neppure tanto male, ma ne sono contento come persona che crede nella democrazia e che ha fiducia che gli americani si ricordino che le cose andavano molto meglio quando la democrazia funzionava”.
Lei è stato uno dei primi a dire che l’unico che poteva farcela contro Trump era Biden. Vista la situazione attuale, pensa che Biden sia in grado di ridare fiducia agli americani?
“L’ho pensato perché mi sono reso conto che uno degli elementi di vittoria per uscire dalla tragedia in cui l’America era precipitata era il mantenere a freno l’eccesso di partecipazione politica. Cioè se si fosse risposto a Trump con una veemenza pari o uguale alla violenza e virulenza con cui Trump si era rivolto al paese sarebbe stato un disastro. Io, che non sono un moderato, ho apprezzato il tentativo di riportare normalità e tranquillità nei rapporti umani e non solo in quelli politici, perché in questo modo Biden ha fatto sentire la differenza”.
Come giudica le prime mosse del nuovo presidente?
“Io sono ormai lontano dagli Stati Uniti e dopo un po’ che si è lontani si perde una parte della sensibilità necessaria per capire subito quello che sta succedendo. E’ un po’ come stare dietro una porta imbottita. Sai le cose, ma sono un po’ sfuocate. Non sono sicuro che la lentezza con cui Biden ha preso in mano la macchina non sia eccessiva e che la sua morbidezza non sia eccessiva e che i suoi elettori, o almeno una buona parte, non avrebbero apprezzato un polso più duro. Però continuo ad apprezzare il fatto che ha riportato il paese in un mondo relativamente normale, relativamente sereno, fatto di gente per bene. E questo deve avere rassicurato molti americani”.
Proviamo a metterci nei panni di un elettore di Trump. Se fossi un bianco ultraconservatore, che vive isolato nella Middle America, e vedessi questo governo con tanti neri, tante donne, tante minoranze, non mi sentirei veramente poco rappresentato nel governo di Biden?
“Io non ho mai creduto all’americano abbandonato, che si sentiva lasciato solo da qualcuno come Obama e che si è vendicato votando Trump. La vera protesta è di una classe media che stava perdendo per ragioni che sono prevalentemente economiche il suo privilegio di vivere bene in case non sfarzose, di mandare i figli a una buona scuola anche se non di elite, di fare una carriera magari non straordinaria ma decente, di avere buone paghe e buoni riconoscimenti al valore medio. Il valore medio si è visto abbandonato e si è arrabbiato in un modo furibondo. E si è arrabbiato con i mezzi che aveva a disposizione perché non era povero. La gente che è andata a Capitol Hill era solido, ben nutrito valore medio, gente furiosa per non essere al centro dell’attenzione.
In questi ultimi anni i veri poveri hanno fatto i poveri, ignorati da tutti, non c’e n’era neppure uno a Capitol Hill. I cosiddetti poveri abbandonati sono in realtà fior di impiegati pagati male, fior di gente che ha il suo lavoro ma che improvvisamente ha visto crearsi una distanza fra le proprie remunerazioni e quelle di quelli che davvero guadagnano. Gli è stato fatto credere con bravura che si trattasse della sinistra indifferente che impediva che si creassero le fonti di guadagno che li avevano nutriti in passato. E loro sono caduti nella trappola come la classe media era caduta nella trappola del fascismo e del nazismo. Se qualcuno dice loro che meritano di più, gli vanno dietro.
In realtà, la responsabilità di tutto sta nei cambiamenti dell’economia, che sfuggono dalle mani dei presidenti e hanno creato in pochi decenni dei livelli di ricchezza non solo irraggiungibili, ma anche invisibili. La nuova incommensurabile ricchezza sai che c’è, ma non la vedi e sai che non hai nessuna possibilità di raggiungerla. Per combattere tutto questo sarebbero stati necessari dei politici di un talento immenso, che non ci sono stati”.
Che riflessi avrà quello che sta succedendo in America nel resto del mondo occidentale?
“Non molti, o almeno non nell’immediato. L’America è spaccata ma per il resto del mondo conta sempre chi è il presidente, anche Trump, nonostante la sua tragica comicità è stato preso dagli europei come il presidente degli Stati Uniti, irriso, ma solo fino a un certo punto. L’America spaccata fa paura, ma non al punto da non sentire il fiato dell’America quando l’America si esprime. Per quanto riguarda i fascismi europei, Trump li aveva certamente rafforzati, ma ciascuno di loro ha fatto, e continuerà a fare, il suo gioco indipendente. In un’Europa divisa, gente come Orban in Ungheria si è tenuta su da sola con grande astuzia criminale”.