“Non ho mai cercato di abbandonare la presidenza o chiesto asilo in Russia”.
Bashar al-Assad torna a parlare poco più di una settimana dopo l’avanzata dei miliziani islamisti di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) che lo ha costretto a lasciare la Siria e rifugiarsi a Mosca dall’amico-alleato Vladimir Putin.
In un messaggio pubblicato lunedì sul canale Telegram ufficiale della presidenza (deposta) siriana, Assad sostiene di aver lasciato Damasco nella serata dell’8 dicembre e di aver presidiato la capitale fino alle prime ore del mattino dello stesso giorno.
“Non si è trattato di una partenza improvvisa o precipitosa. Sono rimasto a Damasco svolgendo i miei doveri presidenziali fino all’ultimo momento possibile”, ha sottolineato il 59enne erede della dinastia alawita che ha governato – spesso brutalmente – la Siria per oltre mezzo secolo.
Assad ha spiegato di essersi trasferito a Latakia, regione costiera e storica roccaforte lealista, da dove avrebbe in seguito appreso che i gruppi ribelli “terroristi” avevano preso pieno controllo della capitale. Da lì, in coordinamento con il Cremlino, l’ex presidente avrebbe monitorato le operazioni militari fino a quando un massiccio attacco con droni UAV rivolto alla base militare russa di Khmeimim avrebbe reso necessaria un’evacuazione immediata verso Mosca.
Nella nota si sottolinea più volte che non ci sia stato alcunché di premeditato nella ritirata in Russia. “Sono partito da Latakia in un momento estremamente difficile, ma sempre con l’intenzione di garantire la continuità del coordinamento militare con i nostri alleati,” ha spiegato Assad, che ha categoricamente negato di aver mai preso in considerazione l’idea di dimettersi o cercare asilo in un altro Paese.
“Non ho mai ricevuto proposte in tal senso da alcuna parte”, ha scritto Assad. Anche se poco dopo ha ammesso che “quando uno Stato cade nelle mani dei terroristi, ogni incarico istituzionale perde di significato.”
Il presidente deposto ha comunque rinnovato il proposito di combattere contro “l’assalto dei militanti” ed espresso la speranza che il Paese possa ritrovare “libertà” e “indipendenza“, promettendo di fornire un resoconto dettagliato degli eventi “non appena le circostanze lo permetteranno”. Con una chiosa finale aperta a molte interpretazioni: “La Siria risorgerà.”
Non sarà un compito facile: tredici anni di guerra civile hanno frantumato intere famiglie e città, lasciando sul campo oltre mezzo milioni di morti e decine di migliaia di prigionieri. L’economia siriana è al collasso, la povertà dilaga, e l’inflazione e la disoccupazione sono ai livelli più alti di sempre – il che agevola una corruzione ormai endemica.
A fare paura è anche il retaggio jihadista di HTS, che pur avendo preso le distanze da al-Qaeda (anche grazie alle pressioni degli alleati Turchia e Qatar) dal 2016, è ancora iscritta nella blacklist di gruppi terroristici da USA, Regno Unito e UE.
Il leader di HTS Ahmed al-Sharaa – che ha deciso di usare il suo vero nome e abbandonare quello di battaglia, Abu Mohammed al-Golani – nell’ultima settimana ha cercato di rassicurare le comunità religiose ed etniche siriane, promettendo un futuro pluralista e improntato sulla tolleranza. Il suo approccio moderato sembra aver dato i primi frutti: l’inviato delle Nazioni Unite per la Siria, Geir O. Pederson, ha chiesto di rimuovere le sanzioni internazionali.
Al contempo, l’UE ha deciso di inviare un proprio emissario a Damasco per dialogare con il Governo ad interim guidato da Mohammed al-Bashir, a cui viene chiesto il massimo impegno per la tutela della minoranze e una garanzia che il nuovo regime rimanga distante da Russia e Iran.
Aperture sono arrivate anche da Washington, che per bocca del segretario di Stato Antony Blinken si è detta pronta ad agevolare una “transizione ordinata” a condizione che il Paese non diventi un rifugio per terroristi o una minaccia per gli Stati vicini.