Gisèle Pélicot non ha voluto un processo a porte chiuse: “non sono io che devo vergognarmi, ma loro”. Loro, sono l’ex marito e gli oltre 50 uomini che in dieci anni le sono entrati in casa e hanno abusato del suo corpo inerte, drogato. Gisèle Pélicot ha permesso al tribunale di mostrare i video che il consorte si premurava di girare e che salvava poi sul computer. La storia atroce ha sconvolto la Francia ed è arrivata in tutto il mondo; questa donna minuta di 72 anni è diventata l’eroina delle femministe, la bandiera sotto cui raccogliersi per dimostrare che la violenza è una questione culturale diffusa, non un caso di pochi barbari.
Nel giorno della lotta alla violenza sulle donne, il 25 novembre, la pubblica accusa di Avignone ha chiesto vent’anni di carcere per il marito Dominique Pelicot, il massimo della pena. “20 anni” – secondo Laure Chabaud, una delle rappresentanti del pubblico ministero – “è molto, si tratta di 20 anni di una vita. Ma è anche troppo poco rispetto alla gravità dei fatti”. Dominique Pelicot ha ammesso: “sono colpevole di quello che ho fatto, ho rovinato tutto, ho perso tutto. Devo pagare”. Ma gli altri? I 50 imputati che dal 2010 al 2020 reclutò sul sito internet Coco.fr perché venissero a stuprare la moglie? Sono solo quelli che è stato possibile riconoscere dalle immagini. “Vent’anni per tutti” ha gridato un gruppo di femministe fuori dal tribunale.
La sentenza è attesa per il 20 dicembre, ma la Francia l’attende col fiato sospeso, così come ha seguito tutto il processo. Il 5 settembre, Gisèle Pélicot ha parlato del suo calvario in pubblico per la prima volta da quando gli agenti di polizia, quattro anni prima, l’avevano chiamata per raccontarle l’impensabile. Il marito era stato arrestato perché cercava di filmare di nascosto sotto le gonne delle clienti di un supermercato. Nel suo computer avevano scoperto l’abisso.
In aula, con voce calma e chiara, Gisèle ha raccontato l’orrore di scoprire che il suo ex coniuge l’aveva sedata e aveva invitato almeno 72 estranei nella loro casa di Mazan, in Provenza, dove si erano ritirati dopo la pensione, per fare sesso con lei. “Per me tutto crolla”, ha testimoniato. “Sono scene di barbarie, di stupro”. Per due mesi e mezzo è poi stata sempre presente in aula, ha assistito a tutte le testimonianze degli stupratori, gente locale, gente comune con moglie e figli, ragazzi, uomini adulti, anziani, dai 26 ai 74 anni. Solo 14 hanno ammesso lo stupro (uno le ha detto “l’ho fatto per curiosità”). Per lo più hanno negato, ovvero hanno detto che “il marito diceva che era d’accordo”, che pensavano facesse finta di dormire, quel corpo inanimato sulle federe a pois, un quadro alla parete, i muri dipinti di viola, le foto di famiglia sul comodino.
La settimana scorsa, in aula hanno parlato, devastati, anche i tre figli della coppia. Caroline Darian, la figlia, che ha scoperto anche foto di se stessa dormiente e seminuda nel computer del padre. I due figli maschi, David e Florian, che hanno scoperto foto delle loro mogli nude (il matrimonio di uno dei due non ha retto alla rivelazione). Caroline ha scritto un libro, Et j’ai cessé de t’appeler papa, ho smesso di chiamarti papà (sarà pubblicato in febbraio in Italia), cronistoria della scoperta del dramma che li ha distrutti, in cui si rimprovera anche, come i fratelli, di non aver colto i segnali e in particolare i momenti di assenza della madre, che al telefono o durante i primi giorni di certe visite appariva smarrita, incapace di ricordare, tanto da far loro sospettare una malattia neurologica. Ma era l’effetto delle droghe che il marito le somministrava. Soprattutto però si chiede se il padre abbia stuprato anche lei (lui nega, ma come fidarsi?), e come sia stato possibile. Suo padre, che pensava di amare. E tutti gli altri.
Nella sua requisitoria, il pubblico ministero ha affermato che “il nodo” del processo per gli stupri di Mazan “è cambiare fondamentalmente i rapporti fra uomini e donne”. Gisèle Pélicot era un corpo disponibile, nulla di più. Era possibile dunque servirsene senza farsi domande.
La casa di Mazan dopo la scoperta fu abbandonata in due giorni, Gisèle andò dal figlio David con una valigia e il suo cane, quanto restava di 50 anni di matrimonio. Ricominciò da sola in un paese dove non conosceva nessuno. Ha deciso di tenere il processo in pubblico per non nascondersi più, ma ha sofferto il solito ciclo delle domande mortificanti della difesa: il suo passato sessuale, perché non piange in aula, se il marito abbia voluto vendicarsi di un tradimento di trent’anni fa. Ha ricevuto e letto lettere da donne di tutto il mondo. “Sono decisa a cambiare questa società”, ha detto. Fuori appare calma, “ma dentro sono in rovina”.
“Nei grandi casi criminali tutti si ricordano il nome del delinquente” ha detto il figlio Florian. “Questa volta no, sarà il nome di Gisèle Pélicot ad essere ricordato”.