“È un momento difficile”, ha detto Alec Baldwin, icona di Hollywood, arrivato al 42° Torino Film Festival per ricevere la prestigiosa Stella della Mole (riconoscimento già assegnato nei giorni scorsi a Ron Howard, Giancarlo Giannini, Sharon Stone e Angelina Jolie). “Nella mia nazione, metà della gente è felice, mentre l’altra metà vive un grande disagio”.
Oggi negli Stati Uniti le disparità si fanno ogni giorno più stridenti. La classe media, un tempo colonna vertebrale della società, è stata spolpata; gran parte della popolazione vive in condizioni di crescente povertà, mentre l’1% accumula extra profitti spropositati. E, beffa del destino, i figli di questa ristretto élite erediteranno ricchezze immense per il semplice fatto di essere nati al posto giusto. Qualcosa non torna, qualcosa scricchiola. Forse tutto.
Baldwin non ha dubbi: per capire davvero cosa sta succedendo negli Stati Uniti e nel resto del mondo, non si può contare sui media tradizionali. “I notiziari sono un’industria che deve generare guadagni, e questo crea un vuoto informativo. C’è una mancanza di consapevolezza negli americani su temi cruciali come il cambiamento climatico, la situazione in Ucraina e molte altre questioni importanti. Gli americani hanno fame di informazioni, ma spesso queste non arrivano nei modi giusti, perché il profitto detta le priorità”.
Qui entra in gioco il cinema. “È l’arte a spezzare il silenzio delle grandi testate”. Baldwin non parla solo di cinema indipendente o documentari – pur fondamentali – ma anche di quei film narrativi che sanno unire spettacolo e riflessione. “I filmmaker, gli studi, le reti e le piattaforme streaming stanno lavorando per creare opere che non siano solo intrattenenti, ma anche profondamente informative”.
Parlare di cinema e di Baldwin significa inevitabilmente tornare a uno dei suoi ruoli più iconici: Jack Ryan in Caccia a Ottobre Rosso (1990), in proiezione speciale al Festival. Per l’attore, quel film non è solo un thriller mozzafiato, ma una lente per leggere l’America, ieri come oggi. Le tensioni politiche tra Est e Ovest, la competizione per il controllo, e l’incertezza sul futuro trovano paralleli inquietanti nel presente. Baldwin ricorda come Connery e il resto del cast abbiano saputo trasformare una storia di sottomarini e strategie militari in un’opera universale. “Peter Firth era così bravo che riusciva a recitare dialoghi in russo con una naturalezza disarmante. È il cast, quella magica alchimia tra gli interpreti, che rende il cinema davvero potente”.
Alec Baldwin è il camaleonte di Hollywood, un attore che attraversa registri e generi con una versatilità sorprendente: dal carisma granitico di Jack Ryan all’umanità complessa e spietata di personaggi come quelli di Glengarry Glen Ross (1992) e The Cooler (2003). Ma è con 30 Rock che Baldwin mette a segno la sua rivoluzione personale. Come Jack Donaghy, trasforma il cinismo in oro comico, giocando con l’arroganza e l’assurdità del potere. Baldwin dice: “I miei personaggi comici spesso non hanno consapevolezza di sé,” e proprio in quella cecità si nasconde la loro irresistibile ironia. È un’arte che flirta con il disastro, un gioco di equilibri precario e brillantemente orchestrato”. L’universo cinematografico di Baldwin è un luogo dove l’umorismo e il dramma sono un antidoto ad un mondo sempre più disilluso.
L’attore torna a parlare del cinema con l’urgenza di chi sa di avere un messaggio che non può aspettare. “Negli Stati Uniti affrontiamo sfide colossali: la microplastica sta infestando mari, ghiacciai e perfino il permafrost. Non possiamo più ignorare il problema. Serve un cambio di passo, un Progetto Apollo per salvare il pianeta. Edifici con pannelli solari, parchi eolici all’avanguardia, investimenti massicci nell’energia alternativa: è questa la rotta da seguire. E il cinema? Può accendere la consapevolezza collettiva, intrecciando storie avvincenti e messaggi potenti. È così che, un fotogramma alla volta, possiamo davvero cambiare il futuro”.