Volare. Nel blu dipinto di blu, la foto-ricordo immortala cinque giocatori e un capitano attorno all’enorme insalatiera d’argento. Lampeggiano le torce dei cellulari nel buio, mentre l’arena di Malaga piomba a media luz per la parata dei finalisti. Il tricolore, l’inno di Mameli, le medaglie al collo dei nostri. I coriandoli e i fuochi pirotecnici. Berrettini è in lacrime: “La maglia azzurra è il mio sogno di bambino”, dice. I compagni l’abbracciano come si conviene a un amico ritrovato: Sinner, Musetti, Bolelli, Vavassori. E il comandante Volandri. I sei moschettieri. Tutti insieme ridono, saltano, raccontano davanti ai microfoni spianati che cosa sia la gioia. Il palco apparecchiato per la premiazione è l’immagine quasi in fotocopia dell’anno scorso: l’Italia ha concesso il bis. O meglio il tris, perché è la nostra terza Davis. E con questi ragazzi, più quelli rimasti a casa, la sensazione tangibile è che non sarà l’ultima. Sfogliare l’albo d’oro unisce il passato all’oggi e al domani che verrà. Nel 1976 furono Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli — con il capitano Pietrangeli — a portare a casa la Coppa dal Cile, poi c’è stato l’exploit del 2023. Siamo solo noi, un’unica squadra che comprende le straordinarie ragazze vincitrici della Billie Jean King Cup: Jasmine Paolini, Sara Errani, Lucia Bronzetti, Elisabetta Cocciaretto, Martina Trevisan. I campioni e le campionesse del mondo.
L’Italia ha battuto due a zero l’Olanda rivincendo il titolo da favoriti, cosa mai facile. I precedenti con gli Orange erano 9-1, l’unica sconfitta datata 1923. Correvano i tempi del barone Uberto De Morpurgo, bronzo olimpico a Parigi nel ’24 come quest’estate Musetti al Roland Garros. Quella era preistoria, la storia oggi siamo noi. Il gentiluomo Paul Haaruis, timoniere degli Orange, aveva detto alla vigilia: “Per battere gli italiani dovremmo avvelenargli il cibo”. Frase che fa il paio con quella pronunciata dodici mesi fa, commentando la sconfitta della sua squadra: “I nostri guai sono cominciati quando Sinner è sceso dall’aereo”. Eppure non è stato così facile. Spiega perfettamente Volandri: “I nostri ragazzi vanno veloci, hanno reso quasi scontata un’impresa. Ma dietro c’è tanto lavoro”. Tesi confermata dal consueto commento lucido di Jannik: “Ci tenevo tanto e c’era tanta pressione. Tutti hanno dato tutto, è stato un ottimo lavoro”. Good job, my friends.
Il capitano ha messo in campo una formazione obbligata schierando Jannik e Matteo, al netto dei timori legati al giorno in meno di riposo rispetto ai rivali. Sinner s’è presentato alle Finals preceduto da un filotto di otto vittorie tra singolo e doppio, Berrettini con una striscia di sette vittorie in singolare e l’aura di imbattuto fin dal debutto nel 2019. L’uno contro uno dava garanzie assolute: il romano aveva battuto quattro volte su quattro Van de Zandschulp (soffrendo però due mesi fa a Bologna), l’altoatesino era cinque a zero contro Griekspoor (perdendo un set ad Halle e Miami nel 2024). Inoltre per gli olandesi si trattava della prima finale in 103 anni di storia, peso non indifferente. Per di più dovevano a noi se sono arrivati in Spagna: nel girone di qualificazione a Bologna persero 2-1, promossi per quoziente set grazie al successo nel doppio di Van de Zandeschulp e Koolhof sulla coppia Bolelli-Vavassori. Così, per la prima volta, l’atto conclusivo è stato un deja-vu.
Insomma tutto semplice sulla carta. Ma la carta non gioca a tennis, men che meno in Davis. Van de Zandschulp è stato molto positivo in questo finale di stagione — ha eliminato Alcaraz agli US Open e battuto Nadal proprio a Malaga — e non era da sottovalutare su una superficie così veloce. Quando a Griekspoor, i 24 ace messi a segno nella battaglia contro Struff in semifinale parlavano chiaro. Inutile rimarcare che arrivare al doppio decisivo sarebbe stata una lotteria, oltreché l’ultima opportunità prima del ritiro per Wesley Koolhof, ex numero uno del mondo in doppio e campione a Wimbledon 2023. Senza contare i dubbi sulla formazione che Volandri avrebbe messo in campo. Non ce n’è stato bisogno.
Berrettini ha regolato Van de Z in un match vissuto in equilibrio fino al quattro pari del primo set. Il quel momento Matteo ha tirato fuori l’artiglieria pesante, dietro il solito servizio devastante: risposta e dritto fulminante, una sciagurata palla corta di Botic trasformata in vincente, il rovescio-talpa d’attacco che ha fatto danno nella trincea nemica. L’olandese imperturbabile ha accusato il colpo, pur senza abbandonare quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che hanno loro che sono nati a Veenendaal. Non è riuscito a evitare il break e il conseguente 6-4 timbrato dal nostro numero due. La partita è scivolata in discesa nella frazione successiva, perché il break è arrivato immediatamente: Van de Z ha tentato di forzare il gioco attaccando con i santini in tasca e senza elmetto, venendo uccellato tre volte a rete. Il resto è stata ordinaria amministrazione, sull’onda di un altro break. The Hammer ha messo ha referto 16 ace, chiudendo la partita 6-2 con un urlo che ha cancellato i suoi lunghi mesi di tribolazione.
Poi è arrivato Jannik. Chi si aspettava che facesse polpette di Griekspoor, una delle vittime preferite, s’è ricreduto in fretta. Il numero uno olandese è sì il 40 del mondo, ma è capace di picchi nel gioco che lo rendono estremamente pericoloso. Così non solo ha retto il pressing di Sinner: ha replicato con una forza uguale e contraria, che Wonder Boy ha faticato a contenere. Servendo regolarmente oltre i 200 orari, ha variato gli scambi rubando spesso il tempo a uno che nel timing ha il suo pezzo forte. Partita bellissima la sua. Privato del pieno ritmo, il nostro eroe ha trovato conforto in 14 ace totali che l’hanno tratto d’impaccio nel momento chiave: il tie break del primo set, messo nel borsone per sei punti a due. Adesso Jan prende il largo, hanno pensato tutti. Tutti fuorché Tallon, che ha continuato a rimanere incollato fino al 2-2 nel secondo set, dopo un break e un controbreak consecutivi. E lì è venuta fuori, nuovamente, la straordinaria solidità mentale della Volpe Rossa. Che non ha fatto la piega, ha alzato con il telecomando il livello dei colpi e ha infilato quattro game di fila schiantando l’avversario. Ma siccome anche lui è umano, s’è inceppato proprio al match point. Ne buttati via tre prima di mettere il sigillo di ceralacca sulla carta intestata Coppa Davis: gioco, partita e festa. Il cielo sopra Malaga è una notte azzurra.