La campagna di Kamala Harris ha fatto la storia questa settimana, raccogliendo 1 miliardo di dollari in meno di 80 giorni, un record assoluto. La direzione della campagna democratica però teme che la notizia possa rallentare le donazioni nelle settimane finali, proprio quando servirebbero maggiori risorse. I sette stati in bilico, quelli in cui si concentra la lotta, sono ancora entro il margine di errore dei sondaggi. I cosiddetti “swing states”, quelli che possono cambiare colore, sono diversi di elezione in elezione ma quest’anno l’attenzione si punta su Arizona, Georgia, Michigan, Pennsylvania, Nevada, North Carolina e Wisconsin. Sono 90 voti elettorali in tutto – il più “pesante” è la Pennsylvania con 19 voti – e servono almeno 270 voti elettorali per arrivare alla Casa Bianca.
Questi sette Stati richiedono ingenti spese per la pubblicità e il contatto diretto con gli elettori. Il team di Harris sta lottando contro il tempo per raggiungere gli elettori indecisi, e il bacino fondamentale ed enorme di quelli che rischiano di non andare proprio a votare. Mobilitare i giovani e gli afroamericani che non la conoscono ancora bene farebbe tutta la differenza.
L’esperienza – e Hillary Clinton l’ha pagato sulla sua pelle proprio contro Donald Trump nel 2016 – dimostra che si può vincere il voto popolare (cioè avere la maggioranza dei voti espressi attraverso i 50 Stati) ma non ottenere la Casa Bianc,a perché non si vince negli Stati giusti che combinano sufficienti voti elettorali. Il meccanismo è perverso, ma sancito dalla tradizione.
In ogni caso il record delle donazioni dimostra quanto i finanziatori democratici tengano quest’anno alla vittoria di Harris: la battaglia contro Trump sta assumendo il profilo mitico del Bene contro il Male. Altri candidati presidenziali nella storia hanno raggiunto un totale di oltre 1 miliardo di dollari, ma Harris ci è arrivata in un lasso di tempo estremamente breve, da quando a fine luglio è stata proiettata in prima linea dalla rinuncia – forzata – di Joe Biden. Due mesi e mezzo hanno trasformato le finanze della gara per la Casa Bianca. “Ha fatto qualcosa di assolutamente senza precedenti” ribadisce Sarah Bryner, direttrice della ricerca al gruppo nonpartisan OpenSecrets, che segue il flusso dei soldi nelle campagne elettorali.
Un altro dato però preoccupa la campagna Harris. Secondo recenti sondaggi, un numero crescente di elettori si identifica come repubblicano piuttosto che democratico, 42 a 40%. Non succedeva da 30 anni. Questo fenomeno offre a Donald Trump un vantaggio strutturale nelle elezioni di novembre, anche se altri fattori potrebbero influenzare l’esito.
Kamala Harris mantiene un leggero vantaggio in molti sondaggi, grazie al supporto degli elettori indipendenti e dei repubblicani non affiliati al movimento MAGA di Trump. Il vantaggio repubblicano è un indicatore importante, ma non garantisce necessariamente il successo elettorale. Ad esempio, nelle elezioni di metà mandato del 2022, i repubblicani hanno superato i democratici in termini di affluenza, ma la forte preferenza degli indipendenti per i democratici ha permesso a questi ultimi di vincere in diversi stati chiave.
Il risultato insomma si gioca sul filo di lana. Ed è per questo che la caccia disperata agli elettori indecisi e indipendenti in questi sette Stati è la chiave di volta di queste ultime settimane di campagna matta e disperatissima.